Pensieri altrui che sono anche i miei

Ci sono cose che vorresti dire e che poi trovi qualcuno che le ha già dette proprio come le volevi dire tu. Ecco un talk che vorrei avere fatto io. Magari dandogli un altro titolo, per esempio “L’Italia e l’agricoltura, come sono andate per davvero le cose”.

Antonio Pascale a TEDxReggioEmilia Come abbiamo smesso di essere un paese agricolo.

Please relax, parte 2: la solforosa nemico pubblico numero 1

L’anidride solforosa è un conservante e un antiossidante ampiamente utilizzato nell’industria alimentare, è tossica per ingestione e per inalazione (per cui chi la utilizza deve usare determinate precauzioni), mentre nelle dosi consentite e presenti negli alimenti rappresenta un rischio in modo particolare per i soggetti sensibili e allergici.

Per giunta è uno dei pochi additivi autorizzati per essere utilizzati nel vino, gli altri prodotti per uso enologico (molti) sono considerati coadiuvanti e cioè hanno contatto con il prodotto solo in relazione ad un determinato processo per poi essere rimossi o consumati (nella realtà si tratta di una classificazione merceologica abbastanza discutibile perche anche dei coadiuvanti nel vino resta molto o almeno molti di questi sono utilizzati proprio in quanto in grado di cedere al vino composti che lo stabilizzano o lo migliorano).

La solforosa invece si aggiunge al vino e qui rimane fino al bicchiere. Per questo motivo da alcuni anni e per effetto di una direttiva europea sull’obbligo di indicare l’eventuale presenza di allergeni in etichetta su tutti gli alimenti, anche sull’etichetta dei vini trovate la dicitura “contiene solfiti” in tutte le lingue del mondo. Questo non è piaciuto soprattutto ad alcuni produttori ma la solforosa c’è e se se ne fa uso è giusto che la si indichi.

A meno che non se ne faccia a meno.

Se non si aggiunge solforosa e il livello resta inferiore ai 10 mg/l (perchè i lieviti possono produrla nel loro metabolismo per cui può essere presente anche se non è stata aggiunta) l’obbligo di indicarla in etichetta decade (perchè cessa il rischio per i soggetti allergici, non per premiare il produttore).

Ora se da più di un secolo si utilizza solforosa un motivo c’è. Forse è vero che potendo avere a disposizione una soluzione così efficace e a buon mercato non siano state cercate alternative. Bene adesso è venuto il momento di farlo, è così che si deve muovere la ricerca applicata, cercando soluzioni quando si presentano le necessità (ma anche prima non guasterebbe).

Perchè la solforosa nel vino?

La solforosa ha una doppia azione nel vino, serve come antiossidante e serve come antisettico.

La prima cosa vuol dire che serve per preservare il vino dalle ossidazioni (i difetti che vengono descritti con i termini di svanito, maderizzato, aranciato, imbrunito, e naturalmente ossidato) in quanto interrompe i processi di ossidazione ossidandosi essa stessa. Diciamo che la solforosa fa da barriera chimica all’ossigeno dell’aria. Per contenere il contatto e l’azione dell’ossigeno ci sono delle buone pratiche che possono essere applicate per esempio utilizzando i gas tecnici (l’azoto o l’anidride carbonica) o altri antiossidanti naturali come i tannini estratti da uva, ma anche cose semplici come curare le colmature dei contenitori, utiizzare pompe adeguate o sfruttare il principio di caduta nei travasi e nei riempimenti aiutano. L’applicazione di questi accorgimenti riduce la necessità di utilizzare la solforosa come antiossidante soprattutto nei vini rossi che contengono di per sé moltissimi antiossidanti, i composti polifenolici.

L’azione antisettica della solforosa è più difficile da sostituire. Lo scopo è quello di inibire l’azione di alcuni micro-organismi, batteri e lieviti, che producono sostanze negative per la qualità dei vini (come l’acido acetico o l’acetato di etile, che sono la causa dell’odore di aceto, per esempio). Mentre tutti i batteri sono sensibili alla solforosa, per alcuni lieviti non desiderati già la solforosa manifesta qualche limite. Perchè vi sono alcune specie particolarmente temibili, come Brettanomyces, responsabile dell’odore di sudore di cavallo o di scuderia (chi non lo vorrebbe nel suo vino?), resiste in alcune condizioni anche a dosi di solforosa che potremmo dire per l’appunto quasi da cavallo. Come fare per ridurre la necessità di solforosa senza che i microorganismi indesiderati banchettino con i vini?

Ovviamente ridurre fisicamente le popolazioni presenti in cantina con spazzole, ramazza e vapore (perchè se si vuole igienizzare un ambiente non ci sono solo i sanificanti di sintesi) è fondamentale. La necessità di igiene negli ambienti e nelle attrezzature di cantina è una delle conquiste più importanti della tecnica enologica.

Perchè si debba pensare che una cantina possa o debba essere sporca è qualcosa che continuo a non afferrare.

Il motivo per cui per secoli le cantine sono state poco pulite è legato al fatto che si è da sempre considerato il vino come un ambiente inospitale per i micro-organismi dannosi per l’uomo. In vino, grazie alla presenza dell’alcol e all’assenza di sostanze appetibili, non si sviluppano batteri o lieviti che possano provocare intossicazioni alimentari. Il motivo è solo questo, niente a che fare con la qualità dei vini. E’ evidente che a partire da Pasteur è stato più facile e necessario introdurre i principi di igiene in un caseificio o in uno stabilimento che fa conserve che in una cantina.

Se produco latte o conserve e non rispetto le norme igieniche e per mia disgrazia (ma poi neanche tanto) incappo in un inquinamento microbiologico il rischio è di mandare qualcuno in ospedale o peggio, se produco vino mal che mi vada faccio un vino cattivo.

Ci sono sostanze di origine naturale pericolose anche nel vino (oltre all’alcol)

Tutto questo è vero fino ad un certo punto perchè anche nell’uva e nel vino vi sono dei micro-organismi (che devono essere tenuti sotto-controllo, tanto più se non si fa uso di soforosa e prodotti chimici in vigneto) in grado di produrre tossine dannose per la salute umana.

Sull’uva possono essere presenti le ocratossine prodotte da alcuni funghi del genere Aspergillus e Penicillum e che sono responsabili di intossicazioni anche gravi (e per questo motivo esiste un limite di legge).

I batteri lattici del vino invece sono in grado di produrre ammine biogene (istamina, tiramina, 2-fenilalanina, putrescina e cadaverina) che sono attive sul sistema circolatorio e sul sistema nervoso e causano effetti come mal di testa, rossori, palpitazioni e reazioni allergiche a seconda della loro concentrazione e della sensibilità dei singoli individui. Inoltre le ammine biogene sono i precursori di sostanze come le nitrosammine considerate cancerogene.

Filtrare?

Oltre alla solforosa per ridurre la carica microbica o eliminare i micro-organismi dal vino vi sono poi le tecniche di separazione fisica, giro di parole per dire che per togliere le cellule la tecnica del colino funziona sempre: il vino si può filtrare e a seconda della dimensione dei pori delle membrane lieviti e batteri restano da una parte e il vino se ne va bello e pulito dall’altra.

Qualcuno trova poco naturale e rispettosa dell’integrità del vino anche la filtrazione. A questo riguardo posso solo dire che in effetti alcune tecniche di filtrazione, come la filtrazione a farina per alluvionaggio o la filtrazione a cartoni, trattengono alcune macromolecole “buone” come i polisaccaridi, possono arricchire il vino in ossigeno (ma solo se non si applicano determinati accorgimenti) e di conseguenza lo impoveriscono anche dal punto di vista qualitativo. Ma sebbene ancora molto diffuse nelle cantine queste sono tecniche superate; le tecniche più avanzate, la microfiltrazione e la filtrazione tangenziale, sono molto più rispettose della qualità dei vini, i materiali delle membrane sono molto cambiati e ci sono molte evidenze sperimentali che hanno messo a confronto vini filtrati e non filtrati dopo alcuni mesi dall’imbottigliamento senza trovare alcuna differenza organolettica. E invece chissà perchè in tema di filtrazione si pensa che un filtro a cartoni magari un po’ scassato sia comunque più amichevole di un housing brillante (che è il contenitore in acciaio chiuso ermeticamente che contiene le cartucce di microfiltrazione). Provare per credere: alla domanda “all’imbottigliamento che fai, microfiltri?” i produttori naturali risponderanno “nooo, al massimo passo a cartoni!! Ce l’ho là il filtro ma non lo uso quasi mai, era di mio padre!”.

Ecco, mettiamoci per un attimo nei panni del vino (visto che ha uno spirito vitale possiamo anche pensare di interpretarne le sensazioni).

Passare da un filtro a cartoni è un po’ come andare a sbattere a 150 all’ora contro un muro traforato posto in mezzo all’autostrada. Qualcosa di noi passerà dall’altra parte..Passare da un microfiltro è un po’ come passare dal casello, bisogna rallentare, centrare la porta, ma dal’altra parte siamo sempre noi. Un filtro tangenziale è un muro in curva, se ci si va a sbattere con con un braccio ci vorrà magari un po’ di tempo ma poi si torna nuovi come prima. Il filtro a cartoni del nonno vi sembra ancora tanto amichevole?

(Nota di scuse: Nella comunicazione scientifica la metafora è un mezzo di comunicazione generalmente efficace, spero lo sia stato anche in questo caso, non me ne vogliano gli specialisti della filtrazione e non me ne vogliano tutti i lettori per l’immagine spiacevole dell’autista spiaccicato contro il filtro a cartoni).

La qualità è nulla senza il controllo

Cosa succede quindi se

  1. non si usa solforosa;
  2. non si filtrano i vini
  3. non si osservano strette norme igieniche;
  4. non si usano precauzioni per limitare le ossidazioni;in altre parole si abbandona il vino a se stesso e senza controllo?

Pensate che la mia risposta sia “ si farà un vino cattivo”? E invece no, cioè non necessariamente. Perchè occorre pensare non in termini di eluttabilità o di aleatorietà dei processi chimici e biologici ma in termini di probabilità che un certo evento accada. O meglio in termini di probabilità del rischio che ciò si verifichi. E se io sommo insieme il rischio di andare incontro a delle alterazioni della qualità del mio vino dato dai punti 1, 2, 3 e 4 raggiungo un punteggio molto alto. L’importante è saperlo. Se penso che comunque (che sia per i miei principi di naturalità o di sostenibilità o per il mio credo religioso non fa differenza) sono costretto comunque ad applicare i punti 1, 2, 3 e 4 nella mia cantina devo essere cosciente che mi espongo ad un rischio elevato. A volte, se il cielo mi assiste, avrò vini corretti, forse eccezionali, ma altre (credo la maggioranza perchè le condizioni favolrevoli si sommano e aumentano le probabilità) avrò vini con delle alterazioni, a volte lievi, a volte importanti. E devo anche essere cosciente del fatto che il rischio è mio e non del mio consumatore o del mio acquirente, se un vino risulta alterato colui al quale l’ho venduto deve essere libero di dire “mi fa schifo, riprenditelo”.

Come posso ridurre il rischio e contenerlo? Le risposte sono due: il controllo e le buone pratiche. Applicare un controllo in presenza di un rischio è fondamentale in tutti i processi produttivi, e naturalmente deve crescere con il crescere dell’esposizione al rischio. Se mi espongo ad un rischio microbiologico e so che Brettanomyces è in agguato, la strategia migliore è valutare il rischio con un’analisi microbiologica. Conoscere il nemico prima che attacchi è sempre una tattica vincente.

Se voglio ridurre le necessità di intervento al controllo sarà meglio unire le buone pratiche e rinunciare ai punti 3 e 4 che in fondo quali motivi hanno se non quello di ignorare le conoscenze che abbiamo sui rischi di alterazione dei vini?

 

 

Naturali, artigianali, d’avanguardia, industriali o tecnologici, please relax!

Se siete appassionati di vino e bazzicate la rete vi sarete accorti che negli ultimi tempi il gioco preferito è diventato tessere le lodi dei vini naturali, artigianali o d’avangardia (sembra che i francesi che hanno un maggiore afflato artistico li chiamino così) contrapposti ai vini industriali o convenzionali o tecnologici, che sono la maggioranza, ma che a leggere in giro sembra che non piacciano più a nessuno.

Ecco vorrei anzitutto tranquillizzare chi guarda al settore vitivinicolo anche con l’ apprensione di produttore o di fornitore o di appassionato, i vini “industriali” (improvvisamente vengono chiamati così tutti i vini che non siano vini naturali anche se sono prodotti da un viticoltore con 5 ettari di vigna e tre vasche in acciaio) o “tecnologici”, sono quei vini che hanno fatto avanzare il nome del vino italiano di qualità nel mondo negli ultimi 30 anni e che (dati ISTAT) sono cresciuti sul mercato USA dell’8% nell’ultimo anno. In alcuni dei blog sui vini naturali ho visto definirli anche “vini morti” (perchè non conterrebbero lo spirito vitale credo) ma faccio presente che sono comunque morti che camminano bene, perchè danno lavoro a tantissime persone in Italia, forse le uniche che non rischiano la cassa-integrazione.

La seconda premessa è per dire che non avrei mai pensato su questo blog di entrare nella discussione vini naturali/vini industriali (posso chiamarli vini normali? Non perchè industriale non mi piaccia ma perchè realmente i vini italiani di qualità, industriali proprio non lo sono).

Non lo avrei mai pensato perchè alcuni aspetti tecnici e scientifici che mi troverò a difendere appartengono decisamente al passato, sono conoscenze acquisite da anni, altro che innovazione! È vero, a volte i risultati ottenuti dopo avere introdotto alcune innovazioni possono non piacere, oppure determinate tecnologie possono essere sostituite da altre più sostenibili e allora ben vengano, ma le conoscenze che hanno portato a svilupparle mica si possono cancellare! Qui si parla di storia della scienza, che comunque mi appassiona non meno dell’innovazione per cui ne parlo volentieri.

Faccio un esempio. I batteri acetici sono i principali responsabili della produzione di acido acetico che come tutti sappiamo determina uno scadimento qualitativo del vino. Questo però lo si sa da tempo, direi dai tempi di Pasteur, che tra gli innumerevoli meriti scientifici ha anche quello di essere il padre della microbiologia enologica. Negli anni migliorando la conoscenza dei batteri acetici e delle loro abitudini (per esempio si sa che amano l’aria, preferiscono i vini poco alcolici e sono molto suscettibili all’anidride solforosa) si sono anche trovate alcune soluzioni per ridurne la presenza nei vini e i rischi correlati. Ora il desiderio di ridurre l’uso di anidride solforosa è senz’altro notevole e lodevole ma non si può ignorare che i batteri acetici siano ancora lì con le loro belle abitudini. Quello che si sa di loro resta e deve aiutare a trovare soluzioni alternative per poter continuare ad avere vini di qualità con il plus della maggiore naturalità.

Ridurre l’intervento chimico nei vini non deve voler dire dimenticarsi di quanto si è già acquisito e lasciare che la natura faccia il suo corso. Se si vuole eliminare l’anidride solforosa un’alternativa andrà trovata (non necessariemnte un ausilio di tipo chimico per carità) e poi perchè si dovrebbe anche abbandonare la necessità di tenere pulita la cantina e di utilizzare materiali igienizzabili come l’acciaio? Se l’alternativa non c’è occorrerà ricercarla, sennò cosa ci stanno a fare le Università e gli istituti del CRA (Consiglio per le Ricerche in Agricoltura) ? Si può rinnegare l’uso della solforosa (perchè è tossica, perchè è estranea alla naturalità del vno, perchè uccide lo spirito vitale o perchè volete che sia così e basta) ma perchè voler ignorare anche il rischio legato ai batteri acetici e dovere accettare o peggio pretendere che il consumatore accetti un vino affetto dal difetto dello spunto acetico?

Non era mia intenzione entrare nella polemica, mi chiedo però se un consumatore abbia chiaro che cosa “l’avanguardia” stia proponendo e che cosa contesti ai vini “industriali/normali”. E quindi nei prossimi due post il primo dedicato all’anidride solforosa e alla possibilità di ridurla o eliminarla e il secondo dedicato all’uso (o al non uso) di lieviti selezionati, entrerò nei particolari tecnici. Intanto dichiaro aperta la discussione,  “but please relax”.

Che male c’è, che c’è di male..

kit_baroloGli ingredienti sono un mosto concentrato o un mosto varietale (immagino pastorizzato), zucchero invertito, lievito secco attivo, metabisolfito di potassio, attivanti di fermentazione, acido tartarico, acido citrico, bentonite, acido ascorbico, sorbato di potassio, sol di silice e tannini. Il tutto confezionato in una scatola tricolore con immagini evocative come il colosseo o uno Chateau francese. A parte è possibile acquistare il serbatoio in plastica per la fermentazione, un mostimetro per il controllo della fermentazione, la fiasca per l’affinamento, la canna per imbottigliare, le bottiglie, i tappi, la tappatrice, le etichette, le capsule.

E’ la composizione dei kit per home winemaking in commercio soprattutto negli Stati Uniti e in Canada e saliti agli onori della cronaca da quando Amazon con l’apertura della sezione Enoteca on line li ha aggiunti alla sua offerta.

Saliti agli onori (ma soprattutto ai disonori) della cronaca in quanto molti produttori nostrani e (non poteva mancare) Coldiretti hanno gridato allo scandalo.

Il primo problema sollevato (e indiscutibile) è che sui kit di Amazon spiccano i nomi di numerose denominazioni di orgine italiane (e non solo), è possibile cioè acquistare il kit per il Chianti, per il Valpolicella, per il Barolo ecc ecc.

Ora, visto che per i vini DOC e DOCG la legge e i disciplinari di produzione prevedono l’obbligatorietà della provenienza delle uve dai vigneti della relativa zona se non la vinificazione nella stessa area, è evidente che (e dato che tra l’altro in alcuni dei kit si specifica che i mosti provengono da uve selezionate nei migliori vigneti della California) siamo di fronte ad un caso di contraffazione alimentare che come tale deve essere perseguito. Il problema è che le leggi che tutelano le denominazioni di origine sono leggi europee e che gli Stati Uniti (cosa gravissima) non le riconoscono.

Anche il richiamo con immagini e nomi ai vini e alle regioni italiane sono elementi che in qualche modo creano confusione nel consumatore che pensa di acquistare un prodotto italiano mentre così non è.

Il secondo problema è ancora di carattere legale. Per vino si intende per la legge europea il prodotto della fermentazione di uve di Vitis vinifera europea, ottenuto con le pratiche enologiche consentite, niente di più e niente di meno. Un mosto concentrato rettificato, per quanto prodotto a partire da uva, diluito con acqua e magari arricchito con zucchero invertito non è contemplato. E anche questo dovrebbe essere chiaro per il consumatore: quello che si ottiene con i kit è una bevanda fermentata simile al vino, mentre il vino, quello vero si ottiene dalla fermentazione di uve fresche ottenute dalla coltivazione della vite.

Per quanto mi riguarda i problemi di carattere legale ed etico si fermano qui. La legge europea tutela già il consumatore che deve avere informazioni chiare e trasparenti: quello che acquista e che produrrà non è vino, ma potrà somigliargli, non è italiano e naturalmente tantomeno si tratta di Chianti, Valpolicella o Bordeaux. Se c’è qualcosa che porta a pensare il contrario ben vengano le crociate e le interrogazioni parlamentari per la contraffazione dei marchi alimentari.

Rivolgerei però l’attenzione al prodotto in sé, al kit. Immaginiamocelo senza tricolori, senza denominazioni altisonanti o evocative. Un kit per fare in casa una bevanda simile al vino “wine style”. Pensiamo davvero che questo prodotto possa essere concorrenziale con i nostri vini, che possa portare danno ai nostri mercati? Pensiamo davvero che il visitatore dell’Enoteca di Amazon possa scegliere il kit invece della bottiglia di un produttore italiano perchè magari più economico?

Quando si parla di mercati del cosiddetto Nuovo Mondo provo sempre a pormi nei panni dell’Americano medio, privo di vincoli di tradizione e di valori sociali ed emozionali legati al vino. Per me, che vivo nel Massachussets, il vino non è un prodotto che mi lega alla terra, mio nonno non lo produceva, da piccola non l’ho visto imbottigliare in cantina, non ho sentito i profumi della fermentazione, non ho mai aspettato con ansia la vendemmia, non è il prodotto che, anche dopo il college e la laurea, continua ad avvicinarmi e a permettermi di avere un dialogo con gli agricoltori del mio paese.

Per il mio “io yankee” il vino ha un valore socializzante nell’aperitivo con i colleghi, è un prodotto trendy e di charme, un interesse che genera delle conoscenze da esibire con gli amici tale e quale il giardinaggio. Magari è l’evocazione delle atmosfere di un viaggio. Nient’altro.

Torno volentieri nei miei panni e capisco che è questa disparità nel vedere il ruolo del vino che ci fa storcere il naso di fronte al kit, è comprensibile. Ma a questo punto faccio un altro esercizio proponendo un parallelismo con un settore con il quale il mondo del vino si confronta a mio avviso troppo poco, quello della birra. Perchè se esistono gli home-winemaker è solo perchè i kit sono stati inventati per i milioni di homebrewer presenti in tutto il mondo, Italia compresa. Lo confesso faccio parte delle schiere di mastri birrai da cucina.

Non siamo forse, noi italiani, tanto ignoranti di birra quanto il “me yankee del Massachussets” lo era di vino? Eppure abbiamo cominciato a farci la birra in casa e anche a produrre birre artigianali apprezzabili. Che ne dicono del nostro nuovo hobby in Germania, in Gran Bretagna, in Belgio? Ci considerano altrettanto barbari e incivili come noi consideriamo il kit un segno del degrado dei tempi?

Essendo a tempo perso uno di loro posso spiegare quello che muove gli homebrewer per diletto ad acquistare il loro primo kit di Mr Malt con l’estratto liquido di malto e procedere con la fermentazione. La curiosità. La voglia di capire come nascono le cose. Si comincia dalla parte più semplice (la fermentazione del mosto da diluire), poi si va avanti e ci si misura con la produzione All grain (che parte dal malto in grani). E intanto aumenta l’interesse per il mondo della birra di qualità, si acquistano le bottiglie, si assaggiano, si seguono corsi di degustazione, si visitano birrifici.

Chi si produce la birra in casa non lo fa per avere birra a basso costo (anche perchè è una fatica disumana e i costi sono tutt’altro che bassi) e competere con chi produce birra di qualità, ma perchè desidera acquisire una cultura nuova che lo porterà ad essere un consumatore modello di birre di qualità.

Perchè non possiamo vedere il kit per il vino nello stesso modo?

Non pensiamo che farsi il “vino” in casa possa essere un modo di capire qualcosa del processo produttivo del vino? E’ vero, la parte più importante, quella legata alla qualità dell’uva resta fuori e non sarà mai riproducibile con un kit. Ma la fermentazione, la trasformazione degli zuccheri, il ruolo buono e cattivo dei micro-organismi, l’importanza delle condizioni igieniche o dell’esposizione all’aria sulla qualità del vino, possono essere un’esperienza formativa anche per chi vive nel Massachussets e non potrà forse mai vivere il fascino di una vendemmia.

La qualità dei “vini” prodotti con i kit non potrà mai avvicinarsi a quella di un vino aziendale (ho condotto diverse fermentazioni sperimentali in laboratorio utilizzando succo d’uva pastorizzato e vi assicuro che il risultato è poco più che potabile).

Personalmente vedo i kit come i giochi scientifici di Clementoni o di Ravensburger: divertenti esperienze formative, niente di più.

Dopo il primo kit (che potrà essere consumato al massimo in un barbeque) l’home-winemaker acquisterà e vorrà assaggiare una bottiglia di vino italiano (magari lo troverà sempre su Amazon) in occasione di una cena elegante, o alla prima occasione vorrà partecipare ad un corso di degustazione e magari sognerà un viaggio in Toscana.

 I nostri nonni: i “mezzucci” non li ha inventati Amazon.

Tuttavia continuo a capire l’indignazione di fronte a queste vie facili, che fanno pensare che esistono mezzi, polverine magiche, per produrre vino senza uva. Noi che questi mezzi non li usiamo e non li abbiamo mai usati, giustamente ci indignamo. Noi che ancora facciamo il vino come lo facevano in nostri nonni, genuino e naturale.

Infatti.

Il pdf in allegato è il mio regalo per il 2013. Catalogo_Soave &co_900

Me lo conservavo per rispondere a chi una volta scoperto che lavoro nel mondo del vino poneva la fatidica domanda furbastra “Ma dimmi, il vino si fa davvero con le polverine ai giorni d’oggi?”.

Siccome odio tutti quelli che per abitudine deprecano i costumi d’oggi, i giorni d’oggi, i giovani d’oggi ecc. mi ero preparata a sfoderare questo documento storico (trovato nell’archivio del mio bisnonno, non so se mai utilizzato) avrei risposto “Adesso no, si fa con l’uva, lo posso testimoniare.. ma ai vecchi tempi forse..”.

Si tratta di un catalogo di prodotti per l’enologia dell’inizio del ‘900 (la data non è riportata ma lo farei risalire ad un periodo compreso tra il 1890 e il 1920) della Ditta Soave e Compagnia di Torino.

I prodotti sono molti, tutti molto interessanti, lascio a voi il piacere di scoprirli tutti. Nella pagina centrale sono elencati “prodotti enologici e diversi per affinare, disacidare, allungare, chiarire, colorire, guarire, imitare ed invecchiare ogni sorta di vini ed aceti”.

Ci sono le “Essenze profumate per fabbricare ogni sorta di vini nazionali, ed esteri con vini ordinari: Vino Amarena di Siracusa, Alicante, Barolo, Barbera, Bordeaux, Grignolino, Brachetto, Capri Bianco e rosso, Chambertin, Frontignano, Lacrima Cristi bianco e rosso, Lunel , Madera, Malvasia, Marsala, Medoc, Moscato di Siracusa, Nebbiolo di Trani, Sauterne, Vini del Reno. – La bottiglia per 25 litri (coll’istruzione) di ciascun vino L. 3 – per 50 litri L. 5 – Per 100 litri L. 8 – Per 1000 litri L. 50.

C’è il “Pianto della vite: succo tanto ricercato per fabbricare con vini ordinari ed anche senza vino, vino Champagne spumante delle più ricercate qualità e degno di figurare sopra le migliori tavole, uguale a quello che si fabrica in Avise, le Menil, Oyer e Epernay – “

E poi c’è la “Polvere Enantica, composta con acini d’uva ed erbe fragranti per preparare con tutta facilità un buon vino rosso di famiglia, economico e garantito igienico.”

Guardare al passato fa sempre bene, non è stato proprio Amazon a inventrasi il vino con le polverine. Guardare al passato fa sempre bene, aiuta ad abbassare il naso. Dopo gli anni in cui Soave e Co. svolgevano la loro “interessante” attività, in Italia, siamo stati salvati dalla legge sulle denominazioni d’origine, è vero, ma forse anche il mito della tradizione non è poi così intoccabile, no?

 

Si comincia con il biologico e con i pomodori (che non sono nemmeno di stagione)

Premetto: non sono contraria all’agricoltura biologica. Non lo sono perchè non è mica una gara, biologico Vs convenzionale, con la rapida rimonta del biodinamico. Non lo sono perchè sarebbe stupido schierarsi e perchè quando c’è motivo di cambiare sistema è bene che si cambi (e il motivo c’è).

Il mio problema (in tutto quello che faccio) però è la sindrome di San Tommaso o anche di Poirot o meglio ancora di Galileo: se non vedo non credo e quando vedo mi ci volgiono le prove e per prove io intendo sempre i dati, presi bene ed elaborati meglio. Non la correlazione tra i nidi di cicogna e le nascite o tra i contadini suicidi e la vendita di sementi.

Sono anche un po’ formale io, e do molto credito alla Scienza ufficiale, quella delle riviste peer e degli Impact Factor.

E allora plaudo alla ricerca scientifica che dà un senso agli sforzi, ai successi e agli insuccessi degli agricoltori biologici, come plaudo anche alla ricerca scientifica fatta da una multinazionale se i risultati mi sembrano interessanti. Scienza da una parte e scienza dall’altra (chi stabiisce che una sia seria e l’altra no?), posti di lavoro di qua e di là, interessi economici anche ( e perchè no?), ma di questo avremo modo di parlare in altre occasioni.

Quello che mi sconcerta è il modo con cui si parla di agricoltura biologica e spesso anche chi ne parla. Perchè diciamocelo, quante volte (raramente) i media danno voce agli scienziati e quante altre invece (sempre) ai produttori (o meglio alle loro associazioni di categoria)? Si chiede al macellaio se la carne è buona o al chirurgo se ha operato bene? Ok, è vero per un giornalista è molto più facile raggiungere l’ufficio stampa di Coldiretti che parlare con il professor Tal dei Tali (che tra l’altro lo guarda dall’alto in basso e parla in modo incomprensibile), ma questo non giustifica la disinformazione. E tra l’altro si sappia che la maggior parte dei Tal dei Tali sono ben contenti di parlare di quello che fanno e non guardano nemmeno troppo dall’alto in basso.

Questa volta sono anche le fonti a cui attingono le istituzioni che mi irritano. Vengo ai fatti.

Il CRA (Consiglio per la Ricerca in Agricoltura) è un ente formato da molti istituti sperimentali che svolgono ricerca e sperimentazione alle dirette dipendenze del Ministero dell’Agricoltura. Recentemente, quelli che si chiamavano Istituti Sperimentali per ..(l’Enologia, l’Orticoltura, la Ceralicoltura ecc ecc) sono stati riorganizzati per renderli più efficienti e per ottimizzarne l’uso delle risorse (alcuni sono stati chiusi, altri accorpati, ecc ecc, cose ormai all’ordine del giorno nella ricerca in Italia). Per il mio lavoro il CRA è una fonte autorevole.

Qualche giorno fa mi imbatto nella rassegna stampa del CRA in un articolo dal titolo Gli studi confermano che il cibo biologico fa vivere meglio e piu’ a lungo. Caspita, questa sì che è una notizia, se ne parla da anni in campo internazionale! Anni fa erano anche uscite un paio review autorevoli che analizzando i risultati di centinaia di articoli scientifici avevano avanzato dei dubbi sulla superiorità nutrizionale degli alimenti biologici rispetto a quelli ottenuti da agricoltura convenzionale. Quindi il CRA avrebbe ottenuto dei risultati a dir poco rivoluzionari. Ottimo!

Leggo meglio, non è il CRA che parla, si tratta di un articolo che riporta di un seminario (ma non c’è scritto nemmeno da chi sia stato organizzato) tenutosi a Roma dove sarebbero stati presentati i risultati di alcuni progetti d ricerca italiani sull’agricoltura biologica. Fonte: Fiori Gialli.

Fiori Gialli?? vado a vedere cos’è questa fonte citata nella rassegna stampa del nostro Ministero dell’Agricoltura e trovo: Fiorigialli: Ecospiritualweb, comunicazione e progetti, idee e prodotti per una nuova coscienza.

Mi viene quasi da piangere.

Però posso tirare un sospiro di sollievo perchè in effetti Fiori Gialli, ha in effetti riportato un articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano il 6 dicembre scorso.

Il Fatto Quotidiano, lo stesso giornale che ospita il Blog di Dario Bressanini. Ma se ne sarà accorto Bressanini di questo articolo di Gianluca Mazzelli, esperto agroalimentare? Sì se ne è accorto perchè su Scienza in cucina, il blog di Le Scienze, ne stanno già parlando.

Cosa dice l’articolo del Fatto? Si comincia subito malissimo (cito) Che i prodotti biologici siano più buoni dei convenzionali è un fatto certo. Chi lo avrebbe accertato? Ci sono studi che hanno sottoposto tutti gli alimenti ottenuti con metodo biologico e convenzionale all’interno di un disegno sperimentale a un panel di assaggio addestrato e che hanno verificato la superiorità organolettica dei prodotti biologici? A me non risulta uno studio su così ampia scala, ma magari qualcuno lo ha fatto.

Attenzione, non parlo dei risultati dei progetti citati (Biopomnutri, Psnb-Cer, Elisolqua, Euvinbio), per quelli mi rivolgerò alle pubblicazioni scientifiche che in alcuni casi ancora non ci sono. Mi limito a quanto leggo in questo articolo, dove i riferimenti ai risultati sono pochissimi e alcune delle conclusioni e delle relazioni causa-effetto tra i diversi studi non sono evidentemente farina uscita dal sacco dei ricercatori.

Per esempio dubito che se tra i risultati del progetto sul pomodoro da industria Biopomnutri sia stato riscontrato nei prodotti ottenuti da agricoltura biologica un maggior contenuto in polifenoli e sostanze antiossidanti, la conclusione sia che i pomodori biologici fanno vivere più a lungo. A meno che non sia stato fatto anche uno studio clinico vasto e approfondito nel quale ad una popolazione di soggetti con diverse caratteristiche (uomini o topi che siano) siano stati somministrati, alla cieca e in modo sistematico per un periodo prolungato, pomodori biologici e pomodori ottenuti da agricoltura convenzionale, per verificare poi l’incidenza delle malattie cardiovascolari e l’aspettativa di vita.

E’ stato fatto? Se la risposta è no, eviterei tutti quei dunque, quindi, ovviamente ecc. ecc. Nella scienza non c’è niente di ovvio.

E cosa vuol dire che gli alimenti biologici (cito ancora) “pur non avvalendosi di fungicidi, sono meno esposti a contaminazioni fungine, per la maggiore attenzione prestata alle buone pratiche agronomiche”? Forse che gli agricoltori convenzionali sono dei cialtroni? Ma se stiamo parlando di risultati sperimentali e di ricerca, le pratiche agronomiche e la cura applicate in una comparazione saranno state le stesse, immagino, perchè in caso contrario avrei qualcosa da ridire sui metodi.

Sul fatto che siano le caratteristiche intrinseche dei prodotti biologici che permettono di utilizzare meno additivi come l’anidride solforosa posso rispondere per esperienza. Quella di abbassare il contenuto di solforosa ammesso nei vini biologici è una scelta di rispetto verso il consumatore fatta da chi ha legiferato sul vino biologico (e si poteva fare anche di più), non è la conseguenza della maggiore sanità delle uve biologiche. La possibilità di abbassare i livelli di solforosa nei vini rispetto al passato esiste per tutti i vini, biologici e non, grazie al miglioramento della tecnica enologica e delle condizioni igieniche delle cantine. Applicando tecniche corrette si possono fare vini con ridotto contenuto in solforosa, indipendentemente dal tipo di gestione agronomica dei vigneti (e cioè sia con uve biologiche che con uve convenzionali). E aggiungerei anche che per i difetti derivanti da uve in cattive condizioni sanitarie (perchè colpite da malattie o da marciumi) non c’è solforosa che tenga, biologico o non biologico.

Sorvolerei sulle pratiche tradizionali dell’agricoltura classica che sarebbero applicate dall’agricoltura biologica (mi viene in mente il mio professore di agronomia, che era un personaggio moolto classico, quasi d’altri tempi, ma direi davvero poco biologico).

L’aspetto nutrizionale come anche quello organolettico sono importantissimi e per questo devono essere affrontati e comunicati con serietà. Anzitutto, proprio perchè la varietà nutrizionale degli alimenti è un valore importante, non si può parlare di superiorità nutrizionale o addirittura effetti farmaceutici dei prodotti biologici in generale. Non si può perchè il valore nutrizionale di un pomodoro è diverso da quello di una bistecca e quindi ci saranno ricerche diverse che studiano i diversi effetti dei nutrienti attivi presenti nell’uno o nell’altro.

Nella scienza non si può generalizzare, mai. Se mi si dice che una cosa fa bene vorrei anche sapere a cosa e perchè.

Una conversione al biologico nel giro di un paper

Come è stato fatto da Manuela Giovannetti dell’Università di Pisa nello studio svolto in collaborazione con CNR Ibba e pubblicato qualche mese fa. Anche allora i titoli erano stati del tipo “Quanto fa bene il pomodoro biologico”  ma poi si leggevano informazioni scientifiche complete date da un buon comunicato stampa. Il pomodoro, si legge nel comunicato stampa del CNR, è considerato un cibo funzionale, il cui consumo, grazie al contenuto in sostanze biologicamente attive, come i flavonoidi e il licopene, svolge un azione benfica sull’organismo nella prevenzione di alcuni tumori. Questo vale per tutti i pomodori, ma quelli con un contenuto superiore in queste sostanze hanno proprietà nutraceutiche superiori. Poiché (e questo è l’oggetto dello studio) le simbiosi tra la pianta e la microflora del suolo (micorrizze) svolgono un ruolo positivo nella sintesi di questi composti benefici e poiché tali micro-organismi sono più presenti e attivi nei suoli sottoposti ai metodi di produzione biologici, nei pomodori biologici è maggiore il contenuto in sostanze biologicamente attive. Questo si capisce dal comuncato stampa.

Interessante no? Tanto interessante che mi sono andata a cercare l’articolo originale e me lo sono letto. Interessantissimo, ma manca qualcosa. Per la precisione manca il termine biologico (organic perchè da paper rispettabile l’articolo è in inglese). L’articolo parla di piante di pomodoro micorrizzate in grado di dare un maggior contenuto di sostanze biologicamente attive e pertanto dotate di maggiori proprietà nutraceutiche. E basta. E l’agricotura biologica? Non c’è. E com’è allora che nel comunicato stampa (e di conseguenza su tutta la stampa che ha riportato la notizia) i pomodori sono miracolosamente diventati biologici? Non si sa. Sarà perchè gli autori hanno svolto anche altre ricerche che dimostrano che i funghi micorriziali hanno maggiori probabilità di sopravvivere nei terreni biologici? Forse, è plausibile, però nell’articolo non c’è scritto. E allora? Sarà mica che il biologico fa notizia e le micorrizze da sole no? Ma no via (a pensar male si fa peccato, diceva Giulio Andreotti aggiungendo.. ma ci si azzecca quasi sempre).

Magari è solo che per aiutare il lettore si è preferito un termine più facile come biologico a quello troppo tecnico di micorrizza? Il fatto è che a questo punto e con tutta la confusione che si è fatta e si sta facendo, dubito che il consumatore sappia cosa significa veramente biologico.

E allora? I prodotti biologici fanno bene, fanno male o non hanno niente di diverso dagli altri prodotti? Cosa dobbiamo mangiare.

Sicuramente i prodotti biologici fanno bene ad un sistema più ampio rispetto a quello che è la salute del singolo individuo che li consuma, perchè per ottenerli si utilizzano una minore quantità di risorse e perchè hanno minori costi di ripristino dell’ambiente. Lo aveva dimostrato già tempo fa il professor Tiezzi, uno dei primi scienziati ambientalisti italiani. E di conseguenza anche la salute, non solo dei consumatori, ma anche quella dei lavoratori e dell’intero sistema ne possono trarre dei vantaggi. Ma non è detto che l’agricoltura biologica sia l’unica via percorribile per la sostenibilità in agricoltura.

Personalmente, da consumatore, lo confesso, scelgo più facilmente quello che mi piace mangiare e non credo di essere sola. Nella cultura mediterranea, l’atto del consumo alimentare non si riduce ad una scelta salutistica.

E per quanto riguarda gli aspetti organolettici dal punto di vista scientifico le cose sono se vogliamo ancora più complicate. Perchè sono solo gli studi che applicano i complessi metodi dell’ analisi sensoriale che possono dire se un prodotto è più dolce, salato, amaro, fruttato, floreale ecc ecc di un altro. Ma questi non dicono se un prodotto sia o no più buono di un altro. Per questo ci sono i test sul consumatore che devono anch’essi essere condotti in modo rigoroso e naturalmente alla cieca. Le ricerche di mercato, che dicono che il consumatore apprezza sempre di più i prodotti biologici non danno nessuna informazione sulla loro “bontà”, perchè nelle motivazioni di scelta ci sono fattori diversissimi dall’apprezzamento gustativo. C’è la sensibilità per l’ambiente, la diffidenza verso l’agricoltura convenzionale e anche (perchè no) il desiderio di scaricare nel carrello della spesa i propri “sensi di colpa” nei confronti dell’ambiente.

Un blog è quello che ci vuole

Un blog è quello che ci vuole. Per parlare di agricoltura e di enologia. Per raccontare quello che ci gira intorno. Per aprire una finestra su tutto quello che c’è di nuovo nel nostro mondo, su cosa fanno i colleghi delle Università e dei centri di Ricerca e le aziende più innovative.
Per raccontare l’agricoltura come è davvero. Per parlare delle conquiste della tecnologia e della scienza nella produzione degli alimenti  e sottolineare che nei “bei tempi antichi, quando tutto era più buono” le cose non andavano meglio.. anzi.
Da un pò di tempo me lo stavo chiedendo: scrivere sulle riviste tecniche va bene, un sito personale anche, ma come si può fare per tenere aperto il dialogo tra ricerca, innovazione e mondo produttivo e per scavare nel modo in cui i media parlano di tutto questo? Ecco, ci sono! Un blog è quello che ci vuole.

C’è una pezzo bellissimo su scienza e vino che spiega come il vino sia oggetto di cultura scientifica ma che poi, non dimentichiamolo, sia un piacere per chi lo beve. Un pezzo che aiuta a tenere i piedi per terra e a non prendersi troppo sul serio (chi si occupa di vino rischia di farlo). Non lo ha scritto un giornalista del vino e nemmeno uno scienziato del vino. Lo ha scritto Richard Feynman, premio Nobel per la Fisica del 1965. Ve lo regalo come lo ha regalato a me un amico fisico:

“Un giorno, un poeta disse: – L’intero Universo sta in un bicchiere di vino!
Non credo che sapremo mai cosa intendesse lui con ciò, perché i poeti non scrivono per essere capiti, però è vero che se guardi un bicchiere di vino abbastanza da vicino, vedrai l’intero Universo. Ecco le cose della fisica: le torsioni del liquido e i riflessi nel vetro, e con la nostra immaginazione vediamo gli atomi, e l’evaporazione che dipende dalle condizioni del tempo e dal vento. Il vetro è un distillato della roccia terrestre, e nella sua composizione sveliamo il segreto dell’età dell’Universo, e l’evoluzione delle stelle.
Quale strana schiera di componenti chimici ci sono nel vino? Come si sono formati? Ci sono fermenti, enzimi, sostrati e prodotti, e lì nel vino si fonda la grande generalizzazione: tutta la vita è fermentazione. Neppure puoi scoprire la chimica del vino senza svelare, come fece Pasteur, la causa di tante malattie.
Com’è intenso il colore del vino, che proietta la sua presenza nella coscienza di colui che lo osserva! E se le nostre piccole menti, per qualche modesta convenienza, dividono questo bicchiere di vino, in questo Universo, in diverse parti – fisica, chimica, biologia, geologia, astronomia, psicologia, eccetera – ricorda che la Natura non fa questo. Per cui rimettiamo tutto assieme per non scordarci infine per cosa è fatto, lasciamo che ci regali ancora un ultimo piacere, beviamolo in un sorso e scordiamoci di tutta questa storia!”