Please relax, parte 2: la solforosa nemico pubblico numero 1

L’anidride solforosa è un conservante e un antiossidante ampiamente utilizzato nell’industria alimentare, è tossica per ingestione e per inalazione (per cui chi la utilizza deve usare determinate precauzioni), mentre nelle dosi consentite e presenti negli alimenti rappresenta un rischio in modo particolare per i soggetti sensibili e allergici.

Per giunta è uno dei pochi additivi autorizzati per essere utilizzati nel vino, gli altri prodotti per uso enologico (molti) sono considerati coadiuvanti e cioè hanno contatto con il prodotto solo in relazione ad un determinato processo per poi essere rimossi o consumati (nella realtà si tratta di una classificazione merceologica abbastanza discutibile perche anche dei coadiuvanti nel vino resta molto o almeno molti di questi sono utilizzati proprio in quanto in grado di cedere al vino composti che lo stabilizzano o lo migliorano).

La solforosa invece si aggiunge al vino e qui rimane fino al bicchiere. Per questo motivo da alcuni anni e per effetto di una direttiva europea sull’obbligo di indicare l’eventuale presenza di allergeni in etichetta su tutti gli alimenti, anche sull’etichetta dei vini trovate la dicitura “contiene solfiti” in tutte le lingue del mondo. Questo non è piaciuto soprattutto ad alcuni produttori ma la solforosa c’è e se se ne fa uso è giusto che la si indichi.

A meno che non se ne faccia a meno.

Se non si aggiunge solforosa e il livello resta inferiore ai 10 mg/l (perchè i lieviti possono produrla nel loro metabolismo per cui può essere presente anche se non è stata aggiunta) l’obbligo di indicarla in etichetta decade (perchè cessa il rischio per i soggetti allergici, non per premiare il produttore).

Ora se da più di un secolo si utilizza solforosa un motivo c’è. Forse è vero che potendo avere a disposizione una soluzione così efficace e a buon mercato non siano state cercate alternative. Bene adesso è venuto il momento di farlo, è così che si deve muovere la ricerca applicata, cercando soluzioni quando si presentano le necessità (ma anche prima non guasterebbe).

Perchè la solforosa nel vino?

La solforosa ha una doppia azione nel vino, serve come antiossidante e serve come antisettico.

La prima cosa vuol dire che serve per preservare il vino dalle ossidazioni (i difetti che vengono descritti con i termini di svanito, maderizzato, aranciato, imbrunito, e naturalmente ossidato) in quanto interrompe i processi di ossidazione ossidandosi essa stessa. Diciamo che la solforosa fa da barriera chimica all’ossigeno dell’aria. Per contenere il contatto e l’azione dell’ossigeno ci sono delle buone pratiche che possono essere applicate per esempio utilizzando i gas tecnici (l’azoto o l’anidride carbonica) o altri antiossidanti naturali come i tannini estratti da uva, ma anche cose semplici come curare le colmature dei contenitori, utiizzare pompe adeguate o sfruttare il principio di caduta nei travasi e nei riempimenti aiutano. L’applicazione di questi accorgimenti riduce la necessità di utilizzare la solforosa come antiossidante soprattutto nei vini rossi che contengono di per sé moltissimi antiossidanti, i composti polifenolici.

L’azione antisettica della solforosa è più difficile da sostituire. Lo scopo è quello di inibire l’azione di alcuni micro-organismi, batteri e lieviti, che producono sostanze negative per la qualità dei vini (come l’acido acetico o l’acetato di etile, che sono la causa dell’odore di aceto, per esempio). Mentre tutti i batteri sono sensibili alla solforosa, per alcuni lieviti non desiderati già la solforosa manifesta qualche limite. Perchè vi sono alcune specie particolarmente temibili, come Brettanomyces, responsabile dell’odore di sudore di cavallo o di scuderia (chi non lo vorrebbe nel suo vino?), resiste in alcune condizioni anche a dosi di solforosa che potremmo dire per l’appunto quasi da cavallo. Come fare per ridurre la necessità di solforosa senza che i microorganismi indesiderati banchettino con i vini?

Ovviamente ridurre fisicamente le popolazioni presenti in cantina con spazzole, ramazza e vapore (perchè se si vuole igienizzare un ambiente non ci sono solo i sanificanti di sintesi) è fondamentale. La necessità di igiene negli ambienti e nelle attrezzature di cantina è una delle conquiste più importanti della tecnica enologica.

Perchè si debba pensare che una cantina possa o debba essere sporca è qualcosa che continuo a non afferrare.

Il motivo per cui per secoli le cantine sono state poco pulite è legato al fatto che si è da sempre considerato il vino come un ambiente inospitale per i micro-organismi dannosi per l’uomo. In vino, grazie alla presenza dell’alcol e all’assenza di sostanze appetibili, non si sviluppano batteri o lieviti che possano provocare intossicazioni alimentari. Il motivo è solo questo, niente a che fare con la qualità dei vini. E’ evidente che a partire da Pasteur è stato più facile e necessario introdurre i principi di igiene in un caseificio o in uno stabilimento che fa conserve che in una cantina.

Se produco latte o conserve e non rispetto le norme igieniche e per mia disgrazia (ma poi neanche tanto) incappo in un inquinamento microbiologico il rischio è di mandare qualcuno in ospedale o peggio, se produco vino mal che mi vada faccio un vino cattivo.

Ci sono sostanze di origine naturale pericolose anche nel vino (oltre all’alcol)

Tutto questo è vero fino ad un certo punto perchè anche nell’uva e nel vino vi sono dei micro-organismi (che devono essere tenuti sotto-controllo, tanto più se non si fa uso di soforosa e prodotti chimici in vigneto) in grado di produrre tossine dannose per la salute umana.

Sull’uva possono essere presenti le ocratossine prodotte da alcuni funghi del genere Aspergillus e Penicillum e che sono responsabili di intossicazioni anche gravi (e per questo motivo esiste un limite di legge).

I batteri lattici del vino invece sono in grado di produrre ammine biogene (istamina, tiramina, 2-fenilalanina, putrescina e cadaverina) che sono attive sul sistema circolatorio e sul sistema nervoso e causano effetti come mal di testa, rossori, palpitazioni e reazioni allergiche a seconda della loro concentrazione e della sensibilità dei singoli individui. Inoltre le ammine biogene sono i precursori di sostanze come le nitrosammine considerate cancerogene.

Filtrare?

Oltre alla solforosa per ridurre la carica microbica o eliminare i micro-organismi dal vino vi sono poi le tecniche di separazione fisica, giro di parole per dire che per togliere le cellule la tecnica del colino funziona sempre: il vino si può filtrare e a seconda della dimensione dei pori delle membrane lieviti e batteri restano da una parte e il vino se ne va bello e pulito dall’altra.

Qualcuno trova poco naturale e rispettosa dell’integrità del vino anche la filtrazione. A questo riguardo posso solo dire che in effetti alcune tecniche di filtrazione, come la filtrazione a farina per alluvionaggio o la filtrazione a cartoni, trattengono alcune macromolecole “buone” come i polisaccaridi, possono arricchire il vino in ossigeno (ma solo se non si applicano determinati accorgimenti) e di conseguenza lo impoveriscono anche dal punto di vista qualitativo. Ma sebbene ancora molto diffuse nelle cantine queste sono tecniche superate; le tecniche più avanzate, la microfiltrazione e la filtrazione tangenziale, sono molto più rispettose della qualità dei vini, i materiali delle membrane sono molto cambiati e ci sono molte evidenze sperimentali che hanno messo a confronto vini filtrati e non filtrati dopo alcuni mesi dall’imbottigliamento senza trovare alcuna differenza organolettica. E invece chissà perchè in tema di filtrazione si pensa che un filtro a cartoni magari un po’ scassato sia comunque più amichevole di un housing brillante (che è il contenitore in acciaio chiuso ermeticamente che contiene le cartucce di microfiltrazione). Provare per credere: alla domanda “all’imbottigliamento che fai, microfiltri?” i produttori naturali risponderanno “nooo, al massimo passo a cartoni!! Ce l’ho là il filtro ma non lo uso quasi mai, era di mio padre!”.

Ecco, mettiamoci per un attimo nei panni del vino (visto che ha uno spirito vitale possiamo anche pensare di interpretarne le sensazioni).

Passare da un filtro a cartoni è un po’ come andare a sbattere a 150 all’ora contro un muro traforato posto in mezzo all’autostrada. Qualcosa di noi passerà dall’altra parte..Passare da un microfiltro è un po’ come passare dal casello, bisogna rallentare, centrare la porta, ma dal’altra parte siamo sempre noi. Un filtro tangenziale è un muro in curva, se ci si va a sbattere con con un braccio ci vorrà magari un po’ di tempo ma poi si torna nuovi come prima. Il filtro a cartoni del nonno vi sembra ancora tanto amichevole?

(Nota di scuse: Nella comunicazione scientifica la metafora è un mezzo di comunicazione generalmente efficace, spero lo sia stato anche in questo caso, non me ne vogliano gli specialisti della filtrazione e non me ne vogliano tutti i lettori per l’immagine spiacevole dell’autista spiaccicato contro il filtro a cartoni).

La qualità è nulla senza il controllo

Cosa succede quindi se

  1. non si usa solforosa;
  2. non si filtrano i vini
  3. non si osservano strette norme igieniche;
  4. non si usano precauzioni per limitare le ossidazioni;in altre parole si abbandona il vino a se stesso e senza controllo?

Pensate che la mia risposta sia “ si farà un vino cattivo”? E invece no, cioè non necessariamente. Perchè occorre pensare non in termini di eluttabilità o di aleatorietà dei processi chimici e biologici ma in termini di probabilità che un certo evento accada. O meglio in termini di probabilità del rischio che ciò si verifichi. E se io sommo insieme il rischio di andare incontro a delle alterazioni della qualità del mio vino dato dai punti 1, 2, 3 e 4 raggiungo un punteggio molto alto. L’importante è saperlo. Se penso che comunque (che sia per i miei principi di naturalità o di sostenibilità o per il mio credo religioso non fa differenza) sono costretto comunque ad applicare i punti 1, 2, 3 e 4 nella mia cantina devo essere cosciente che mi espongo ad un rischio elevato. A volte, se il cielo mi assiste, avrò vini corretti, forse eccezionali, ma altre (credo la maggioranza perchè le condizioni favolrevoli si sommano e aumentano le probabilità) avrò vini con delle alterazioni, a volte lievi, a volte importanti. E devo anche essere cosciente del fatto che il rischio è mio e non del mio consumatore o del mio acquirente, se un vino risulta alterato colui al quale l’ho venduto deve essere libero di dire “mi fa schifo, riprenditelo”.

Come posso ridurre il rischio e contenerlo? Le risposte sono due: il controllo e le buone pratiche. Applicare un controllo in presenza di un rischio è fondamentale in tutti i processi produttivi, e naturalmente deve crescere con il crescere dell’esposizione al rischio. Se mi espongo ad un rischio microbiologico e so che Brettanomyces è in agguato, la strategia migliore è valutare il rischio con un’analisi microbiologica. Conoscere il nemico prima che attacchi è sempre una tattica vincente.

Se voglio ridurre le necessità di intervento al controllo sarà meglio unire le buone pratiche e rinunciare ai punti 3 e 4 che in fondo quali motivi hanno se non quello di ignorare le conoscenze che abbiamo sui rischi di alterazione dei vini?