La nascita dell’uva

Quando il grande protochef si recò dal vecchio addomesticatore di piante aveva in mente una richiesta ben precisa. Erano i tempi in cui si scriveva il grande libro di ricette dell’umanità e gli uomini facevano richieste sempre più bizzarre alla natura, una pannochia più grande, un tubero più dolce, un frutto profumato. Il grande addomesticatore frugava un po’ nei boschi e nelle praterie e trovava quasi sempre qualcosa di adatto per la dispensa del protochef, per quanto le sue richieste stessero diventando di giorno in giorno più difficili da soddisfare.

“Ho un problema grande addomesticatore, gli uomini sai come sono, quando sono in più di due si litigano, non sanno fare le porzioni. Ecco vorrei un frutto che sia già composto da tante piccole parti. Buono e porzionabile”.

Proprio così disse “porzionabile”, mai richiesta era stata più strana.

Ma niente era impossibile e così dopo qualche tempo il protochef ricevette un frutto nuovo, verde, brillante e lungo come un piccolo astuccio e con la suo interno tante sferette in fila, tutte uguali e perfette.

“Fantastico, ne darò dieci a testa e tutti saranno contenti, come si chiama Grande addomesticatore?”

“L’ho chiamato pisello”

“E perché?”

“E perché no? Tu chiamalo pisello e provalo nei tuoi piatti”

Gli uomini furono molto felici ma la prova non fu soddisfacente per il protochef, che tornò con ancora nuove richieste.

“I piselli erano buoni, anzi buonissimi, ma non è andata come mi aspettavo. Qualcuno mi ha detto che non mangia roba così verde, uno ci ha fatto un circuito per le biglie e un altro li ha lanciati a tutti con la cerbottana. I più piccoli se li sono infilati nel naso e qualcuno li ha mangiati. Ma non era questo che volevo.” spiegò.

“Prova a dirmi che cosa vuoi e vediamo cosa si può fare”.

“Vorrei un frutto dolce, succoso e fresco, che sia di tanti colori diversi.

Lo vorrei fatto di tante parti per mangiarlo con gli amici

ma vorrei anche poterlo spremere per farne qualcosa che rende felici.”

Sembrava troppo anche per il vecchio che invece si aprì in un grande sorriso e disse “Aspettavo questo momento, ho quello che fa per te, il mio progetto definitivo” e da un ramo staccò un frutto strano, fatto di tante piccole bacche riunite in un grappolo.

“Bellissimo, come si chiama?”

“Si chiama uva”

“E perché?”

“E perché no?”SONY DSC

Il “dialoghetto” tecnico: anno 1895

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Quando è nata la stampa tecnica per la divulgazione delle innovazione e l’informazione delle tecniche e delle novità nel campo della politica agraria? Fatte salve le memorie diffuse prevalentemente dalle Accademie di scienze come l’Accademia dei Georgofili a Firenze o quella dei Fisiocritici a Siena, delle vere e proprie riviste cominciano a diffondersi nel 1800.

La lotta ad oidio, fillossera e peronospora sono un forte incentivo alla loro diffusione.

La Settimana Vinicola è un settimanale Organo ufficiale dell’Associazione italiana dei fabbricanti e commercianti di alcol e viene pubblicato la domenica a Milano dall’Editore Sonzogno, contiene indicazioni sui mercati, i prezzi, le tecniche di coltivazione e le nuove tecnolgie enologiche. E un sacco di inserzioni pubblicitarie interessantissime.

Sul numero del 26 maggio 1895 troviamo una chicca, il format divulgativo che non ti aspetti e cioè il dialogo, botta e risposta, tra due viticoltori, Cecco e Beppe, sulle tecniche di difesa dalla peronospora, che dopo l’oidio e la fillossera, sta creando non poche difficoltà nei vigneti italiani.

Cecco e Beppe, dialogano sull’oppurtinità di fare i trattamenti con il rame, di farli tutti gli anni e su come farli, il primo è più restio, il secondo più razionale e progressista. Perchè i redattori abbiano fatto ricorso a questo mezzo di diffusione delle informazioni non lo sappiamo, forse un dialogo tra pari crea più fiducia? Un po’ come i social media dove uno vale uno?

Lasciamo la parola a loro, signore e signori a voi, Cecco e Beppe!!

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1886 – una discussione alla Camera sulle pratiche enologiche

spinolaCorre l’anno 1886 e il Marchese Giacomo Ugo Spinola pubblica un opuscoletto di 70 pagine, il “Vademecum del Fabbricatore del Vino” che dedica al cugino, Duca di Sora con questa introduzione:

Carissimo amico, è qualche tempo che mi vado occupando di enologia e tu più d’ogni altro sai bene che la mia principale lettura sono i giornali vinicoli, le opere che trattano del vino, e i riassunti delle conferenze enologiche” (e qui urge il disclaimer: tra me e il Marchese Giacomo Ugo non corre nessun legame di parentela nonostante alcune affinità o manie con la mia persona e urge anche che sappiate che leggendo e disquisendo sulla sua opera mi è naturale assilmilarne il linguaggio nonchè l’eloquenza, vogliate quindi, gentili lettori, scusarmene). “Sicchè spero non riderai alle mie spalle, e non mi darai del saputello, se ancor io voglio dire la mia opinione in questo volumetto su molte questioni che si agitano fra tanti enologi (è tutto vero non stiamo parlando della sottoscritta ma di Giacomo Ugo). Molti è vero ne hanno scritto opere più o meno voluminose, ma nessuno, che io mi sappia, trattò la cosa in modo veramente pratico, come cerco di fare io nella presente. Se vi sono riuscito lo dirai tu, che con successo ti sei dato alla confezione dei vini e a migliorare i metodi comunemente in uso nella provicia dell’Umbria. Intanto gradiscila come è, e in omagio alla nostra amicizia soffri in pace le poche ore di noia che la lettura della medesima sarà per arrecarti. Credimi sempre, tuo affezionatssimo amico e cugino, Giacomo

Ecco un castigo, praticamente Giacomo Ugo scrive un libro per fare dispetto a suo cugino.

Di molte cose interessanti tratta il Marchese Spinola nel suo trattatello dato alle stampe a Bologna dalla Tipografia Mareggiani, come già ho avuto modo di dirvi nel 1886. Di come si scelga il periodo più adatto per la vendemmia, di come disporre la cantina (lungi dalle strade maestre, dalle latrine e dalle concimaie), di come pulire le botti (se necessario ricorrendo a una soluzione di acido solforico e acqua), di come pressare le uve con il Torchio della Ditta Alessandro Calzoni o Cicognani in Roma (sig, la marchetta travalica la nobiltà). E poi della fermentazione, del dubbio sul fare follature o fermentare a cappello sommerso, i travasi, l’arricchimento, le chiarifiche con la chiara d’uovo o la colla di pesce e le filtrazioni con il filtro olandese e anche dell’alcolizzazione, del riscaldamento del vino o dell’uso del congelamento e dell’elettricità.

Ma la parte più interessante, che il caro Giacomo Ugo piazza al centro del suo opuscoletto, tra i trattamenti fisici e la correzione dei difetti è quella della quale mi occorre qui e oggi riportare il testo integralmente, invitandovi di dimenticare i tempi nei quali essa fu scritta e considerandone l’attualità dell’argomento.

Il titolo del capitoletto che vi sottopongo è

Sulle diverse manipolazioni dei vini e se siano lecite e che se ne disse alla Camera”

Tempo fa  stata nominata una commissione, con l’incarico di studiare quali manipolazioni s potessero permettere nella fabbricazione del vino. Ecco il disegno di legge che fu presenato alla Camera il 26 marzo di quest’anno e discusso il 31 (ci mettevano solo 5 giorni, da non credere).

Disegno di legge del Ministero

Art. 1: È adulterazione o sofisticazione l’aggiunta ai vini di qualsiasi materia che non sia identica a quele che naturalmente vi sono contenute. Anche le sostanze identiche a quelle naturali dei vini, si considerano adulterazioni o sofisticazioni, quando sieno aggiunte in quantità eccedente, dentro certi limiti, le proporzioni che usualmente si trovano nei vini. il vino così adulterato o sofisticato è considerato quale vino artifiziato”

Art. 2: I vini artifiziati non possono mettersi in commercio se non accompaganti da una dichiarazione, che indichi esplicitamente e con ogni chiarezza la natura della merce. la macanza di tale dichiarazione fa presumere che il vino sia genuino.

Art. 3: Con reale decreto, su proposta del Ministero dell’Agricoltura,, Industria e Commercio, (il Reale Decreto, il Ministero dell’Agricoltura, sembra di essere in un’operetta…), saranno stabilite agli effetti della presente legge le sostanze il cui uso è vietato nella manifatturazione dei vini, ed i limiti di quantità entro cu certe sostanze possono essere tollerate nei vini stessi”.

Art. 4: Le infrazione agli articoli 2 e 3 della presente sono puniti con multa di lire 51 estensibili a Lire 500 ed il vino adulterato o sofisticato è confiscato, salvo le pene maggiori contro coloro che si rendessero anche colpevoli di reati previsti dal Codice Penale”

Art. 5: Se un venditore rifiutasse di vendere il vino alle autorità, o ad un privato cittadino che dichiarasse volerne fare acquisto per fare l’analisi, o non volesse fornirne le quantità necessarie per le analisi stesse, può essere punito con una multa estensibile a Lire 100″.

Come ognuno vede questo disegno di legge è giustissimo e nessuno avrebbe potuto dubitare della sua approvazione, salva tutt’alpiù qualche lieve modificazione.

Purtroppo invece non è stato così. Sorse più di un difensore dei vini misturati e fra questi mi si permetta ricordare l’Onorevole Romeo, il quale dopo lunghe argomentazioni intese a dimostrare che questa legge incaglierebbe il commercio vinicolo, ecco come chiudeva il suo discorso: “Voi sapete come nel campo della scienza astratta, teoretica, e nel campo pratico ancora non si sia deciso nemmeno se quelle sostanze che generalmente sono credute dannose per la manifatturazione dei vini, di fatto lo siano. Avete l’esempio della fuxina, avete l’esempio del rosso d’anilina: ebbene il Consiglio superiore di Sanità nostra ritiene che la fuxina non sia una sostanza dannosa, sempre ed in tutte le proporzioni. E voi direte che uno dei principali motivi che si è posto innanzi (non se ne è potuto precisare altro) per giustificare l’assoluta necessità di questo disegno di legge è appunto il bisogno di impedire l’uso della fuxina e del rosso d’anilina. Io non vi dico che queste sostanze si possono mescolare impunemente nel vino, quantunque credache, in certe proporzioni e purificate completamente, possno essere innocue, ma dico soltanto che il disegno di legge è in contrapposizione alla scienza.”

Ora per chiarirsi, se la fuxina (che è come potete bene immaginare di color fucsia) è nota prevalentemente a chimici, biologi e analisti in quanto usata come colorante dei preparati istologici in laboratorio, l’anilina è la prima sostanza riconosciuta come cancerogena nella storia (nel 1895 già si sapeva) e probabilmente molti la ricordano in quanto è il colorante che Giannino Stoppani, in arte Gianburrasca, e i suoi “congiurati” già consci della pericolosità del colorante, aggiungono alla lavatura dei piatti per smascherare la scarsa genuinità del minestrone preparato nel collegio e ottenere l’agognata pappa col pomodoro. “– Ragazzi! nessuno mangi questa minestra rossa… Essa è avvelenata! – A queste parole i collegiali lasciano cadere il cucchiaio sulla tavola e rissano gli occhi in faccia a Barozzo esprimendo il massimo stupore. La direttrice, il cui volto è diventato anche più rosso della minestra, accorre e afferrato il Barozzo per un braccio gli grida con la sua voce stridula: – Che dici? – Dico – ripiglia il Barozzo – che non sono le barbe che tingono di rosso la minestra ma è l’anilina che ci ho messo io! -“

E infatti il nostro Giacomo Ugo Spinola non se le beve le parole dell’Onorevole Romeo dalle quali emerge che l’applicazione del principio di precauzione sia ancora fantascienza e prosegue:

Capite a che punto siamo giunti? Si difendno puranco la fuxina e l’anilina, perchè ben depurate e in certe circostanze e dosi forse non faranno male. sarebbe lungo citare quanto egregiamente dissero gli onorevoli Toaldi e Torigiani in quel giorno per ribattere queste massime, ma purtroppo inutilmente, giacchè la legge in luogo d’esser votata, fu rimessa allo studio della commissione. Vedete dunque che non a torto nella prima edizione di questo libretto io scrivevo “Intesi dire da taluno che ogni manipolazione dovrebbe essere permessa quando il prodotto non riesca dannoso per la salute e vi è da temere che questa idea possa farsi strada col pretesto di non porre inciampi all’industria del vino.” Del resto chiunque abbia appena qualche cognizione di chimica, sa che può fabbricare un liquido, che analizzato (analizzato nel 1886, attenti, adesso non vale) mostri avere le stesse sostanze, e nelle proporzioni medesime, che si trovano nel vino fatto col mosto,  sugo dell’uva, di cui è chimicamente impossibile di riconoscere con certezza la falsificazione (siamo nel 1886, ricordatelo bene uomini e donne del 2019, che non vi vengano strane idee perchè oggi questo non è più vero).

Dall’altro lato, il vino artificiale, anche quando all’analisi risulti affatto simile al naturale , ha sull’organismo animale degli effetti diversi da quelli del vino naturale, in causa della presenza di alcune sostanze, che nella maggior parte dei casi sfuggono all’analisi. È per questo che noi riteniamo che qualsiasi manipolazione che serva alla fabbricazione o totale o parziale del vino, deve ritenersi non solo come una frode dal punto di vista del Codice Penale, ma come un proprio e vero attentato alla Pubblica Igiene. Il permesso di fabbricare in tutto o in parte artificialmente il vino, aprirebbe un campo larghissimo ad ogni specie di frodi, che avrebbero gravissime conseguenze per l’idustria vinicla. I nostri vini verrebbero inesorabilmente esclusi dal commercio degli altri paesi, perchè le leggi che dappertutto tutelano il commercio del vino sno severissime. 

La legge tedesca dice per esempio: “si può vendere come vino una bevanda che sia il prodotto della fermentazione alcoolica del mosto-uva senza alcuna aggiunta. La preparazione del vino secondo i metodi di Lehaptal, di Petiot ecc., non è permessa che sotto la condizione che il vino così ottenuto sia venduto come vino preparato con quei metodi” La stessa legge ritiene falsificati i vini, ai quali sono aaggiunte sostanze coloranti, quando anche innocue, i vini gessati, quelli ai quali è stato aggiunto allume ….(pratiche come l’aggiunta dell’enocianina, o la gessatura erano buone pratiche che il Marchese Spinola descriveva come buone pratiche enologiche non come artefazioni del vino).

La legge Francese e la Svizzera non sono meno severe. Ecco perchè anche fatta astrazione dalla questione igienica, noi crederemmo estremamente pericolosa all’industria nazionale l’autorizzazione, che si volesse dare alla manipolazione dei vini, colla sola restrizione che siano innocue. parmi necessario che all’estero si sappia non solo che queste manipolazioni non sono in uso nel nostro paese, ma che il Governo le vieta ed il Codice penale art. 416 le punisce. a questo proposito leggo sulla Settimana 4 gennaio 1886 queste assennate parole “Non v’è che dire, anche in Italia a nostra somma vergogna comincia a infltrarsi il mal seme della sofisticazione. Anche nella terra di Bacco tenta le sue gherminelle lo scaltro Mercurio, anche qui da noi s’installano gli acciarpatori coi loro segreti fatti apposta per smungere le tasche dei gonzi. Viticoltori, enologi, cantinieri all’erta! Non vi lasciate prendere all’esca, ridete in viso a questa gente, e dite loro che rimontino le alpi donde sono scesi, poichè nella vecchia Enotria anche gli sterpi danno vini, che senza bisogno di pastrocchi, possano farci onoere in qualsivoglia paese!”

Speriamo che in breve la legge sarà ripresentata alla Camera ed approvata a pieni voti. Gli enologi onesti d’Italia ne saranno soddisfatti.”

Adesso torniamo a noi, uomini e donne del 2019.

e stiamo bene attenti: quando parla di vino artificiale, di manipolazioni e di sofisticazioni il Marchese Spinola fa riferimento non a qualsivoglia utilizzo di coadiuvanti perchè delle tecniche di chiarifica e correzione ne parla estesamente anche negli altri capitoli dell’opuscolo. L’uso che fa di questi termini è estremamente moderno e riguarda vini ottenuti al di fuori di norme di sicurezza alimentare e di garanzia di qualità che egli ritiene già da allora necessarie.

Norme che poi in effetti abbiamo atteso a lungo (la prima legge quadro italiana è del 1965 e il primo Regolamento Europeo del 1979) ma sulle cui definizioni il pubblico ancora non ha le idee molto chiare (ne ho parlato anche su Vinix qui https://www.vinix.com/myDocDetail.php?ID=9136).

Perchè i buoni vini di una volta…non erano sempre così sicuri, sani, genuini e buoni e le famigerate “polverine” per fare il vino vengono ahimè proprio da quel passato.

Oggi per il vino come per tutti gli altri alimenti esiste una legislazione che norma l’uso di ingredienti, additivi e coadiuvanti ammessi per uso enologico e che definisce il vino come il prodotto della fermentazione di uve di Vitis vinifera europea, ottenuto con le pratiche enologiche consentite.

I prodotti ammessi sono elencati in un elenco positivo e hanno diverse funzioni.

In nessun caso i prodotti enologici devono servire per colorare o trasformare un vino in un altro vino o l’acqua in vino o un sottoprodotto (le vinace, le fecce, gli estratti) in vino ecc… cosa che ai tempi del Marchese accadeva invece eccome (come dimenticare la “Polvere Enantica, composta con acini d’uva ed erbe fragranti per preparare con tutta facilità un buon vino rosso di famiglia, economico e garantito igienico.”?)

 

 

 

 

Confusione sessuale

SONY DSCSi ritrovavano sempre lì nelle ore più calde della giornata, sul secondo filo della quarta pianta del decimo filare, all’ombra delle foglie più grandi, per fare due chiacchiere prima di cominciare i loro voli alla ricerca di un fiore o un acino dove ovideporre per far crescere le loro larve.

Quell’anno però le cose non stavano andando per il verso giusto e tra le signore della tignoletta (o Lobesia botrana – nonostante loro preferissero chiamarsi per nome, Tina, Titti, Lobby, Tilly) c’era preoccupazione.

Il Consorzio di difesa dei vignaioli della regione aveva aderito al piano per applicare la lotta agli insetti dannosi con l’uso della confusione sessuale: niente più insetticidi ma centinaia di minuscoli diffusori attaccati ai fili del vigneto in punti strategici che, erogando nuvole di ferormone impedivano i voli nuziali e l’incontro tra i maschi e le femmine.

Niente insetticidi e niente danni al grappolo: non ci sarebbero state discussioni con i comitati spontanei preoccupati per la salute dell’ambiente e della popolazione, e il prodotto sarebbe stato comunque salvato. Tutti avevano aderito fiduciosi. Tutti meno uno, Egisto Baresotti, che a rinunciare al potere risolutore dello Spinosad e del Metossifenozide non ci pensava proprio, che amava il rumore della barra irroratrice e anche l’odore acre dell’insetticida e che dei comitati spontanei e anche delle api non gli poteva importare di meno: lui aveva sempre fatto così e non erano le mamme della scuola elementare che dovevano insegnargli a fare l’agricoltore.

Le cose dal punto di vista delle signore del secondo filo invece non erano per niente chiare e proprio quel giorno avrebbero organizzato anche loro dei comitati.

Non sono proprio più loro avete visto come ci guardano? Sono confusi, disorientati.

Come non ci guardano vorrai dire, ormai hanno occhi solo per loro, quelle nuove, che poi diciamocelo sono tutte finte, plastica e basta”.

Che mica ci fanno niente poi, quelle si improfumano e loro annusano l’aria e volano, volano a casaccio, imbambolati, senza trovarle mai.”

E senza trovare noi soprattutto, ieri gli ho volato davanti per un’ora ondeggiando, agitando le ali e emanando il mio ferormone (con discrezione però che non sono mica una di quelle, ho il mio stile, il mio charme). E lui? Niente, io volavo a destra e lui a sinistra, ubriaco sembrava”.

Ah ma io non sto mica qui ad aspettare che si sveglino sai? Se i nostri maschi preferiscono quegli steccolini sintetici ci sarà dove volare per trovare dei maschi veri. Io sono giovane, voglio realizzarmi, ovideporre, avere delle larve mie. E il tempo stringe.

Ragazze, organizziamoci, mi hanno parlato di un vigneto di là del poggio dove le nuove non ci sono. Stasera io parto, chi viene con me?”

Quel pomeriggio si divisero, le giovani decisero di andare, le vecchie di prima generazione invece restarono, stanche e scoraggiate.

E c’era davvero il vigneto di là dal poggio, pieno di maschi giovani e vivaci, pronti a seguire le loro tracce e ad accoppiarsi con loro. Con loro e con le altre femmine che, organizzate in comitati spontanei erano arrivate da tutto il circondario.

I sette giorni che seguirono furono pazzi e meravigliosi, la chiamarono la Woodstock della tignoletta.

Poi quando all’alba dell’ottavo giorno Egisto Baresotti, che aveva osservato un incremento anomalo di insetti, preparò l’irroratore e filare dopo filare passò con il suo trattore, la festa finì.

R.I.P.

Nelle scarpe delle Donne della Vite

SONY DSCIl mio primo colloquio per una posizione infima da borsista laureato sottopagato in un’azienda vitivinicola si concluse in modo inusuale.

“Molto bene Dottoressa. Ah un’ultima cosa: mi faccia vedere le scarpe!”

Che dice questo? le scarpe?

“Perché sa, nei vigneti non si va mica con i tacchi.”

Nei vigneti no ma, volendo, a un colloquio si, caro il mio pallone gonfiato.

Ma non ero pronta a una risposta del genere e mostrai orgogliosa i miei mocassini.

Lo ricordo come se fosse ieri avevo i mocassini College, quelli con la striscetta che ci si infilava chissà come mai un Penny portafortuna. Era il periodo in cui pensavo che la sobrietà e i colori smorti nell’abbigliamento fossero sinonimo di serietà professionale e indossavo un paio di pantaloni marroni a quadrettini e un completo twin set color crema.

Fuori aspettava il suo turno una collega preparatissima ed elegantissima in tajeur azzurro elettrico e decoltè con tacco.

Presero me e non riesco ancora a togliermi dalla mente con imbarazzo che il mocassino mi abbia favorito.

Quando cambiai lavoro per fare un’altra esperienza in un’altra regione chiamai il mio professore di viticoltura che si complimentò con me per la scelta “Brava, brava dottoressa… lei è una donna…che sembra un uomo”.

Una con le palle voleva dire professore?

Ma non ero pronta a dare una risposta del genere e ringraziai per il gentile complimento.

Un’altra volta, con già un po’ di esperienza alle spalle, andai a un colloquio con un pezzo grosso dell’enologia. Cercavano un responsabile in una cantina di prestigio. Ma lui non mi ritenne adatta “perché sa, noi ce l’abbiamo una cantiniera…ma vede.. sembra un uomo…lei no, non ce la vedo in quella posizione”.

Certe persone hanno tutte le fortune pensai, e poi il prof non aveva detto che ero io una donna che sembra un uomo? E lei carissimo intanto non mi immagini in nessuna posizione, per cortesia.

Ma non ero pronta a dare una risposta del genere e ringraziai per il gentile complimento.

Sono passati anni di “brava bravissima dottoressa, solo le donne lavorano così (tanto)” e di “non crederà mica di non doverlo fare perché donna” di “lei che è donna va meglio in laboratorio” ma anche di “dovrai fare le trasferte come tutti gli altri colleghi uomini che ti credi” e anche di “vede dottoressa, non posso darle delle responsabilità, lei prima o poi vorrà un figlio..”

Sono passati anni in cui ho continuato a sbagliare le scarpe. Non in senso figurato proprio per davvero. Perché se mi vestivo bene o avevo i capelli in ordine venivo accolta dagli sguardi di chi la sa lunga con un “guarda questa come si è messa, chissà perché?!” e se ritornavo al tono dimesso e sciatto da un preoccupato e paterno “Stai bene? Problemi con il fidanzato/marito?”.

E le scarpe erano la cosa più sbagliata, sempre. Sono finita affondata in vigneti infangati con le ballerine e in occasioni di rappresentanza con gli scarponcini polverosi..

Nel mio garage c’è un sacchettone pieno di scarpe da bonificare: dal fango agli schizzi di Enoidrosan lì dentro ci sono tutte le scarpe buone capitate al momento sbagliato per le quali nutro ancora delle speranze.

Poi un giorno ormai recente in un’occasione molto seria e ufficiale durante un sopralluogo in cantina faccio notare una cosa che non andava “questo e questo non vanno, qualcuno ha sbagliato”.

E un collega ci riprova “a me invece non va bene che tu venga in cantina con i tacchi”.

Cosa? Stiamo parlando di metodi di campionamento, hai presente? Ecco adesso sono pronta e te sei cascato male perché a questa storia delle scarpe che mi perseguita da vent’anni ora posso dare finalmente una risposta adeguata. Educata ma adeguata.

“E questo cosa c’entra? gli dico “Non mi sembra che le mie scarpe o io siano l’oggetto della nostra discussione.”

“Era per fare un esempio, sei tu che non capisci gli esempi..” fa lui

“Ecco un esempio sbagliato” e non sai quanto caro.

Quindi ci sono donne con le palle e uomini che fanno esempi del c..zo. E il cerchio si chiude.

Poi sono arrivate loro, le mie compagne di una nuova avventura. Quelle con le quali abbiamo fondato la sola associazione dal nome palindromo: Donne della Vite – Vite delle Donne.

Poi parli con loro e ti rendi conto che più o meno abbiamo vestito tutte le stesse scarpe e combattuto le stesse battaglie, quelle perse e quelle vinte.

E trovi la stessa voglia di abbandonare la tensione di dover dimostrare di saper fare in quanto donne o nonostante donne e di riderci sopra insieme.

E anche lo stesso desiderio, che è di tutti uomini o donne, di vedere valorizzato il proprio lavoro, la propria personalità e la propria professione, senza vantaggi o disagi legati al genere. Perché se all’inizio pensi di dover dimostrare qualcosa agli altri, dopo un po’ ti rendi conto che ci sono uomini in gambissima e donne che non si risparmiano, ci sono donne che amano i tacchi (magari dopo essere scese dal trattore) e altre (io ad esempio) che non impareranno mai ad essere sempre in ordine e al posto giusto, ma che ci sono anche oche giulive e gattemorte e uomini inetti ma simpatici o quelli che si nascondono dietro alle scrivanie.

Persone diverse e basta. Perché siamo tutti, proprio tutti, diversamente abili.

 

Bei mi’ tempi: la chiarifica dei nostri nonni.

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L’arte di fabbricare e conservare i vini, Venezia, Colombo Coen Editore, 1873.

Con questo post inauguriamo una nuova sezione che chiameremo Bei mi’ tempi (trad. Bei tempi andati) o anche Ritorno al passato o Quando i Mulini erano bianchi. Sarà il come eravamo della viti-enologia nostrana.

L’intenzione è di dare uno scorcio realistico di come si faceva vino e agricoltura nel nostro passato, di come facevano i nonni, quelli che nell’immaginario collettivo cavalcato da molti producevano in modo genuino, non usavano artefatti e seguivano la natura. Lo scopo è di rompere l’incantesimo (mi dispiace spesso mi capita di rompere) e scoprire che i mulini, carissimi, non sono mai stati bianchi. E che noi (donne e uomini dei nostri tempi intendo), ne sono convinta, siamo molto più rispettosi dei nostri territori e consapevoli delle conseguenze che hanno le nostre azioni sui prodotti, sulla salute e sull’ambiente di quanto lo siano state le generazioni che ci hanno preceduto. Non fosse altro perchè ci siamo dati delle regole.

La possibilità me la danno una serie di volumi, manuali, cataloghi di viticoltura ed enologia pratica che i miei antenati (in casa Biondi Bartolini vigeva la regola di non buttare via nulla, nemmeno le lampadine fulminate, che non si sa mai..) per più di un secolo hanno conservato e utilizzato e che io da qualche anno sto raccogliendo e collezionando. Di volta in volta ne riporterò dei brani, sui cui argomenti ancora si discute.

Non li commenterò, parlano da soli e poi gli autori non potrebbero rispondere a loro discolpa. Li troverete divertenti nella lingua e nei contenuti e faranno riflettere molto sul concetto di genuinità e naturalità, del quale già allora si parlava ma sul quale si sono fatti passi da gigante. E vedrete che coloro che riescono a lavorare oggi con successo su questi concetti stanno facendo quancosa di nuovo, non stanno tornando al passato!

Oggi parleremo di cure del vino dopo la fermentazione, ovvero di chiarifiche.  Dal punto di vista tecnico si parla più che altro di chiarifiche proteiche (albumine, colla di pesce) con alcune intrusioni. Ad esempio la gomma arabica che in realtà stabilizza quanto si trova in sospensione (è un cosiddetto colloide protettore) e sfido chiunque con l sua aggiunta a chiarificare e cioè rendere limpido un vino torbido. Poi ci sono il sale, l’acqua marina, le selci calcinate e chi più ne ha più ne metta, ma l’ho già detto non commento e non giudico.

La fonte è “L’arte di fabbricare i vini”, Venezia, Colombo Coen, Editore, del 1873, la cui copertina ci regala anche uno spaccato del simpatico modo di abbigliarsi del cantiniere di quel tempo (il colbacco ad esempio lo trovo meraviglioso e anche estremamente pratico no?). Vi lascio solo con una domanda: qualcuno mi sa dare una definzione di “feccia volante” sulla quale mi interrogo da diversi giorni?

Il travasamento del vino separa bensì una parte delle sue impurità, ed allontana per conseguenza alcune delle cause, che possono alterarne la qualità, restano però ancora sempre delle materie sospese in questo fluido, che non si possono espellere senza la pratica delle operazioni comprese sotto la denominazione di collatura dei vini.

Serve quasi sempre a tal uso la colla di pesce, e questa si adopera come segue: conviene svolgerla con attenzione, tagliarla in piccoli pezzi, stemperarla in un poco di vino, ove si gonfia, si ammolla e forma una massa vischiosa, che si versa sul vino; viene allora fortemente agitata e poi lasciata in riposo.

Vi è chi usa di sbattere il vino, nel quale è stata disciolta la colla, con mazzetti di canne da granata, per cui vi solleva moltissima spuma, che viene diligentemente levata; in ogni caso però una porzione della colla si precipita con le materie da lei inviluppate e quando è formato il suo deposito si travasa nuovamente il liquore.

Nei climi caldi si teme l’uso della colla, ed in estate vi si supplisce con degli albumi d’uovo: cinque o sei bastano in una mezza botte, pei vini delicati e poco colorati bastano anche tre o quattro.

Si comincia sbattendoli con un poco di vino, poi si mischiano col liquore che si vuole chiarificare e si sbatte il tutto con la stessa diligenza.

Alla colla può anche essere sostituita la gomma arabica: due once bastano per quattrocento boccali di vino; versata essa viene in fina polvere sul liquido, e poi agitata.

I vini non devono essere travasati, se non quando sono ben fatti: se il vino è verde, duro e zuccheroso, conviene lasciargli passare sulla feccia la seconda fermentazione e non travasarlo che verso la metà di maggio; si potrà lasciarlo così anche fino verso gli ultimi giorni di giugno, se continua ad essere verde.

Succede anche talvolta, che si è costretti a ripassare i vini sulla feccia, e confonderli gagliardamente con essa, per dar loro nuovamente un moto di fermentazione, che deve perfezionarli.

Quando i vini di Spagna sono intorbidati dalla feccia, Miller c’insegna, che chiarificati vengono con la procedura seguente:

Si prendono degli albumi d’uovo, del sale bigio, e dell’acqua salata; si mette tutto ciò in un vaso comodo, se ne leva la spuma, che si form aalla superficie, e si versa questa composizione in una botte di vino, dalla quale ne fu già estratta una parte; dopo due o tre giorni il liquore si chierifica, e diventa grato al gusto; se lo si lascia riposare così per otto giorni, e poi si travasa.

Per rimontare un vino chiaretto, guastato da una feccia volante, si prendono due libbre di selci calcinate e triturate, dieci o dodici albumi d’uovo, un buon pugno di sale; si sbatte il tutto in otto pinte di vino, e poi si versa nella botte: due o tre giorni dopo si travasa.

Queste composizioni variano all’infinito: vi si fa entrare alle volte l’amido, il riso, il latte, ed altre sostanze più o meno capaci d’inviluppare i principi che intorbidano il vino.

Il vino può essere anche chiarificato, e corretto del suo cattivo gusto, facendolo smaltire sopra alcune toppe di faggio, precedentemente scortecciate, bollite nell’acqua e disseccate al sole od al forno; quattro litri circa di queste toppe bastano per una botte di vino. Producono esse nel liquore un lieve moto di fermentazione, che lo chiarifica in ventiquattro ore.

L’arte di tagliare i vini, di correggerli l’uno coll’altro, di dare del corpo a quelli che sono deboli, del colore a quelli che non ne hanno, una grata fragranza a quelli che ne mancano o che hanno un cattivo odore, non potrebbe essere insegnata.

Consultare bisogna sempre a tal uopo il gusto, l’occhio e l’odorato; studiare la natura variabilissima delle sostanze, che vi si devono impiegare; ci contenteremo dunque di far osservare, che in tutta questa parte della scienza di manipolare i vini il tutto si riduce: 1 a raddolcire ed inzuccherare i vini con l’addizione del mosto cotto, del miele, dello zucchero, o d’un altro vino squisito; 2- a colorare il vino con un’infusione di pani di girasole, d’estratto di bacche di sambuco, di legno di campeggio, e soprattutto col miscuglio d’un vino assai nero e grosso; 3-a dar fragranza al vino con lo sciroppo di lamponi, con l’infusione di fiori di vite, sospesi nella botte legati in mazzetti, come si pratica in Egitto, secondo la relazione d’Asselquist; 4-a mischiare l’acquavite con quei vini che si vogliono rendere più forti, per adattarli al gusto di certi popoli e di moltissimi consumatori.

Quantunque i vini possano muoversi in tutti i tempi, vi sono nondimeno delle epoche dell’anno, nelle quali la fermentazione sembra rinnovarsi in una maniera speciale, e ciò accade soprattutto quando la vite comincia a gettare, quando essa è in fiore e quando l’uva si colora. Questi sono i momenti critici, nei quali sorvegliati esser devono i vini in modo particolare, e si potrà prevenire ogni movimento di fermentazione, travasandoli e solforandoli come abbiamo indicato.”

Carne e OMS: il gran macello.

“Parti e tagli di carne dei bovini” di Yzmo, Giglio83 – Opera propria, derived by the immage of Yzmo and derived by the elaboration of Giglio83. Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons

“La carne rossa contiene proteine di elevato valore biologico e importanti micronutrienti come la Vitamina B e lo zinco, tuttavia ecc ecc.”

Se coloro che si stanno affannando a mettere una pezza al modo allarmistico con il quale i media hanno comunicato la notizia della classificazione tra gli agenti cancerogeni e potenzialmente cancerogeni delle carni lavorate e delle carni rosse, avessero letto l’articolo pubblicato su The Lancet dagli esperti dell’OMS, queste due righe avrebbero dovuto essere quelle alle quali agganciare un ragionamento razionale, basato su valutazione del rischio ed equilibrio nutrizionale. Come ha fatto ad esempio il Cancer Research nel Regno Unito pubblicando delle infografiche molto esplicative sul rischio e sui comportamenti di consumo consigliabili).

Ma pretendiamo forse che media, istituzioni, associazioni di produttori, allevatori, opinion leader e ministri leggano The Lancet o le fonti che stanno commentando e soprattutto che comunichino ragionamenti razionali?

E infatti tra la demonizzazione delle salsicce e la difesa della cucina e de noantri alla fine ne è uscito un gran macello e mai come in questo caso ci fu definizione più appropriata.

Cerchiamo di fare ordine.

I fatti

Il primo atto è del 26 ottobre e la protagonista è la IARC, Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro che per l’OMS classifica le cause dei tumori nella specie umana. A questo giro gli esperti, 22 provenienti da 10 paesi, si sono ritrovati a Lione per parlare di carne.

E non si sono basati su una nuova ricerca, come qualcuno ha scritto, ma sulla revisione di 800 pubblicazioni scientifiche tra studi clinici, indagini epidemiologiche, esperimenti su modello animale e di relazione tra causa ed effetto. E particolare attenzione nella valutazione degli studi è stata data alle popolazioni sulle quali le ricerche si sono fondate, in modo che il risultato fosse applicabile su scala globale e non fosse influenzato ad esempio da particolari interferenze di carattere genetico o di abitudini alimentari.

Alla fine sono venuti alla conclusione che per le ricerche sinora fatte e valutate:

  • Le carni lavorate, e cioè quelle trasformate con processi di salatura, stagionatura, fermentazione o affumicatura o altri processi che ne esaltino il sapore o migliorino la conservazione, sono classificate come cancerogene per l’uomo (classe 1), esistendo evidenze sufficienti per affermare che il consumo di questi prodotti causa il cancro del colon retto.
  • Le carni rosse, cioè tutti i tipi di muscolo di mammiferi come i bovini, gli ovini, i suini, i caprini e i cavalli, sono classificate come probabilmente cancerogene (classe 2a) esistendo alcune incertezze nella concordanza tra gli studi di popolazione e gli studi sulle relazioni causa-effetto (i cosiddetti studi meccanicistici).

 In realtà una sostanza o è cancerogena o non lo è, quindi non vuol dire che la carne rossa è un po’ meno cancerogena ma solo che non se ne ha uguale certezza in base alle conoscenze attuali.

Nelle carni lavorate gli agenti chimici cangerogeni sono composti azotati, detti NOC (N Nitroso Compounds) e idrocarburi policiclici aromatici (PAH). La cottura delle carni (in modo particolare la frittura la grigliatura e il BBQ) porta poi alla formazione di altri composti sospettati di cancerogenicità come ancora i PAH e le ammine aromatiche eterocicliche (HAA). Uno studio recente pubblicato nel dicembre 2014 su PNAS dai ricercatori della University of California San Diego School of Medicine individuerebbe poi in uno zucchero, denominato Neu5Gc, il responsabile dei tumori derivanti dal consumo di alcune carni rosse.

La sintesi della monografia della IARC aggiunge una stima del rischio dicendo che ogni porzione da 50 grammi di carni lavorate consumate ogni giorno aumenta il rischio di tumore al colon del 18% e il consumo di 100 g di carne rossa consumata con la stessa frequenza lo aumenta del 17%.

Questo non vuol dire che tra tutti quelli che mangiano un panino con il salame al giorno il 18% si ammalerà, sarebbe una cosa terrificante! Vuol dire che sulla percentuale di rischio di ammalarsi di quel tipo di tumore che in Italia è dello 0,103% (dati AIRTUM di tasso standardizzato per età), il rischio sale del 18% calcolato su quello 0,103: chi mangia tanto salame ha il 18% di probabilità in più di chi non lo mangia di stare in quegli sfortunati 103 che su 100.000 che si ammaleranno.

Su scala individuale quindi il rischio è ridotto ed è sufficiente consumare poca carne per ridurlo. Su scala sociale la segnalazione dell’OMS è fondamentale data la diffusione del consumo di carne,  che in alcune società è molto elevato.

 Il messaggio è quello di intervenire a livello di istituzioni che si occupano di salute pubblica per sollecitare e raccomandare un consumo limitato di insaccati e carni rosse, che porti con una corretta valutazione di rischi e benefici ad adottare una dieta giustamente equilibrata.

L’allarme

Ma gli inviti alla moderazione non fanno notizia. E così già il 26 i titoli dei giornali impazzavano con il terrorismo alimentare come l’ANSA che titolava:

“OMS: le carni lavorate sono cancerogene. “Da inserire fra sostanze più pericolose come fumo e benzene”.

La misura che si stesse superando la linea del procurato allarme si è avuta con il comunicato del Codacons nel quale il presidente dichiarava:

“Le risultanze dell’Oms non lasciano spazio a dubbi, ed individuano le carni lavorate tra le sostanze cancerogene al pari di fumo e benzene – spiega il Presidente Carlo Rienzi – Il principio di precauzione impone in questi casi l’adozione di misure anche drastiche,  considerando la salute umana prioritaria a qualsiasi altro interesse. Per tale motivo chiediamo al Ministro della salute, Beatrice Lorenzin, di valutare i provvedimenti da adottare a tutela della popolazione,  compresa la sospensione della vendita per quei prodotti che l’Oms certifica come cancerogeni”.

 Ora nella lista delle sostanze cancerogene della classe 1 c’è il fumo, e le sigarette non sono state sospese dalla vendita, ma ci sono anche l’inquinamento atmosferico e il benzene e tutti andiamo ogni giorno in macchina e poi ci sono le radiazioni solari e la crema a protezione 100 non è ancora diventata obbligatoria per legge, ci sono gli estrogeni delle pillole contraccettive e poi, udite udite, c’è l’etanolo presente nelle bevande alcoliche e per quanto mi risulti queste si possono ancora consumare. Quindi la richiesta avanzata dal Codacons di tutelare la nostra salute limitando la nostra libertà e di trattare un comportamento già in atto alla stregua di una pandemia non risultava troppo plausibile.

Una cosa però il Codacons non aveva sbagliato ed era il destinatario: se c’era e c’è qualcuno che in tutto questo bailamme deve e può pronunciarsi questo è il Ministro della Salute.

Certo c’è anche chi ha trattato la notizia con maggiore equilibrio e già a partire dal giorno dopo le cose cominciavano a rimettersi a posto, grazie anche alle dichiarazioni di Oleg Chestnov, esperto dell’OMS che trovandosi a Expo proprio ieri ha fatto un po’ di chiarezza spiegando che non tutto è bianco o nero e che “Sappiamo che alcuni alimenti, a causa del modo in cui vengono preparati e lavorati, possono portare a problemi di salute se magari assunti in misura eccessiva. Questi prodotti non vanno però eliminati dalla dieta, ma limitati”.

Se la difesa di carne e salumi si fosse fermata qui, nella promozione di un maggiore equilibrio nella dieta che, anche a seconda delle abitudini alimentari, rischia di esporre le persone a problemi di salute anche gravi, probabilmente significava che qualche passo avanti nella comunicazione del rischio era stato fatto da quando, in occasione dell’allarme della mucca pazza, il Ministro dell’Agricoltura britannico mostrò al mondo la figlioletta che addentava un hamburger per tranquillizzare i cittadini ed evitare il crollo dei consumi.

Illusione.

La difesa a testa bassa

Poteva forse chi difende gli interessi delle categorie di produttori mantenere un profilo basso ed equilibrato? Del resto stavamo parlando di una monografia dell’OMS non di uno studio del dottor Berrino, partire a spada tratta a difendere le nostre produzioni di carne e salumi era così necessario? Perché questo è stato fatto: gli argomenti di Coldiretti e anche ahimè del Ministro Martina sono stati che, ok l’OMS ha dichiarato quello che ha dichiarato ma che questo non riguarda i prodotti italiani che sono migliori e più sani. E perché ci sarebbe da chiedersi? Che diamine perché fanno parte del Made in Italy, perché non ci sono additivi, perché si usa solo la salatura, perché i nostri animali sono diversi e sono allevati in modo migliore.

Addirittura Roberto Moncalvo presidente di Coldiretti avanza un’accusa nei confronti dell’OMS:

“I falsi allarmi lanciati sulla carne mettono a rischio 180mila posti di lavoro in un settore chiave del Made in Italy a tavola, che vale da solo 32 miliardi di euro, un quinto dell’intero agroalimentare tricolore”.

I falsi allarmi? Perché falsi?

Così spiega l’articolo su Il Punto Coldiretti

“A denunciarlo è il presidente della Coldiretti, Roberto Moncalvo, sottolineando che lo studio dell’Oms sul consumo della carne rossa sta creando una campagna allarmistica immotivata per quanto riguarda il nostro Paese, soprattutto se si considera che la qualità della carne italiana, dalla stalla allo scaffale, è diversa e migliore e che i cibi sotto accusa come hot dog e bacon non fanno parte della tradizione nostrana.”

Diversa e migliore perché? Solo perché è italiana? E perché citare solo hot dog e bacon, quando il comunicato OMS cita tra gli esempi (ma solo per dare degli esempi ampiamente conosciuti) anche il prosciutto, le salsicce o la carne secca che invece in Italia si producono e si consumano?

In un primo comunicato poi modificato (qualcuno lo ha riportato) si scriveva anche che

“gli animali allevati in Italia non sono uguali a quelli allevati in altri paesi”.

Forse parlando sempre di viti e vino mi sono persa qualcosa e non mi sono accorta degli allevamenti di struzzi e capibara? Giusto il tempo che mi ha richiesto andare a verificare la consistenza degli allevamenti italiani sul Censimento dell’Agricoltura ISTAT 2010 per trovare gli stessi ovini, bovini, equidi, caprini e suini citati dalla OMS che il comunicato era stato modificato.
Su quello che resta si legge ancora:

“Le carni Made in Italy sono più sane, perché magre, non trattate con ormoni, a differenza di quelle americane, e ottenute nel rispetto di rigidi disciplinari di produzione “Doc” che assicurano il benessere e la qualità dell’alimentazione degli animali. E per gli stessi salumi si segue una prassi di lavorazione di tipo ‘naturale’ a base di sale. Non a caso il nostro Paese vanta il primato a livello europeo per numero di prodotti a base di carne “Doc”, ben 40 specialità di salumi che hanno ottenuto la denominazione d’origine o l’indicazione geografica.”

La monografia della IARC che ha portato alla classificazione di carni lavorate e carni rosse si riferisce al muscolo e a composti causa di cancerogenicità sospetta o accertata che derivano dalla cottura o dai processi di salatura, stagionatura e affumicatura. Sì proprio salatura, quella lavorazione tutta “naturale” di cui si parla nel difendere il Made in Italy. Tra l’altro rifletterei anche sul perché l’affumicatura debba essere considerata meno naturale e che anche i prodotti affumicati non ci mancano.

I conservanti poi non c’entrano niente. Se sotto accusa ci fosse stato un conservante nella lista ci sarebbe finito lui, come è già successo in altri casi. Qui si parla della carne è inutile girarci intorno.

E nemmeno l’alimentazione o il benessere animale c’entrano niente a meno che non ci siano dei lavori scientifici che dimostrino che nelle carni ottenute da allevamenti intensivi vi sono più sostanze dannose. Tra l’altro siamo sicuri che i nostri allevamenti e l’alimentazione dei nostri animali siano proprio i migliori del mondo? O forse a fare certe affermazioni tentando di trasformare un’allarme di salute pubblica a lvello mondiale in un atto di protezionismo si rischia di fare un autogol clamoroso?

A peggiorare le cose ci si sono messi anche, durante la trasmissione di Ballarò di martedì 27 ottobre dedicata ad Expo, Oscar Farinetti (essendo un venditore di carne non dovrebbe stupire il fatto che difenda i suoi prodotti, quanto piuttosto che debba essere chiamato a parlare della salute degli italiani) e Maurizio Martina, Ministro delle Politiche Agricole che ha minimizzato l’allarme (e va bene) sottolineando che quanto riportato dall’OMS è vero ma non ci riguarda perché noi abbiamo carne Made in Italy di altissima qualità non paragonabile con quella degli altri (e non va bene).

Ora se io Mariuccia Galimberti casalinga di Voghera mi fido e continuo a cucinare rosticciana e salamelle e a mettere in tavola ogni giorno lauti antipasti di speck, salame, culatello, prosciutto, e ad arrostire carni succulente di Chianina e Piemontese, facendo particolare attenzione alla loro provenienza per essere sicura, come mi hanno raccomandato di fare, di avere sempre carne italiana e prodotti a denominazione di origine, e poi tra 10 anni mi accorgo di essere malata di cancro che faccio? Mi rivolgo al Codacons?

Perché è vero che anche Obama ieri ha mangiato un hamburger con il bacon a bordo dell’Air Force One, ma il suo messaggio era che possiamo continuare a mangiare carne anche se con moderazione e non che possiamo continuare a mangiare carne perchè americana.

Come sempre (anche se sono notevolmente migliorata) sono arrivata ultima, per cui vi consiglio per approfondire alcune letture che fanno chiarezza anche meglio di quanto posso aver fatto io:

la già citata UK Research Cancer – http://scienceblog.cancerresearchuk.org/2015/10/26/processed-meat-and-cancer-what-you-need-to-know/

Strade on line http://stradeonline.it/scienza-e-razionalita/1481-dai-numeri-alle-molecole-cosa-c-e-nel-comunicato-dello-iarc-sulle-carni-rosse

Scienza in Cucina di Dario Bressanini http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2015/10/28/un-culatello-ci-uccidera-comunicare-il-rischio/

Sono andata a Vinix Unplugged Unconference a parlare di Innovino.it

2015-06-21 19.53.44
21 giugno Vinx Unplugged Unconference, Genova.

Vinix e la Unplugged Uncoference per me erano un ambiente nuovo. Io faccio parte delle retrovie, di quella comunità che sta alle spalle dei produttori, quella degli scienziati e di coloro che ai produttori forniscono conoscenza e innovazione.
E se un comunicatore del vino, il giornalista che parla di vino racconta al pubblico dei consumatori i vini e i loro produttori, io nella mia professione racconto ai produttori gli scienziati e la loro innovazione.
Per questo per me il 21 giugno a Genova è stato quello che per un virus rappresenta il salto di specie. Lo stesso che sto tentando di fare con questo blog, fare il salto di specie e andare a parlare al pubblico della scienza del vino e dell’innovazione (e a volte anche di sostituirmi a coloro che raccontano i vini, parlando di produttori che innovano).

Perchè io resto convinta che non solo il vino è un modo meravilgioso con il quale comunicare la scienza ma anche che la scienza possa essere un veicolo anche per comunicare il vino: la scienza è sexy, insegnano ai corsi di giornalismo scientifico, sta tutto in come la si racconta. Se ha trovato spazio il Bosone di Higgs e per qualche tempo se ne è parlato al bar, allora sarà possibile anche parlare di microbioma della vite o di lieviti non Saccharomyces, che diamine! E tutte le volte che mi sento in difficoltà nel trasferire argomenti un po’ ostici al pubblico (anche a quello dei tecnici) penso ai colleghi del Cern e mi consolo.

 A #VUU ho spiegato cosa faccio sulla stampa tecnica quando parlo dei produttori che innovano e con gli scienziati che fanno cose fighe per la vite e il vino, cose che potrebbero interessare anche gli appassionati del vino. Cose che avrei voluto fare anche qui, nel mio progetto web, dove però ho trovato una community un po’ diversa, dove tanto per dirne una mi sono accorta subito di essere dalla parte sbagliata, quella dei cattivi. Perchè sul web il mondo si sa, è diviso in buoni e cattivi.
imagesNo problem, anche i cattivi hanno il loro fascino. E poi se le cose si fossero messe male potevo sempre citare Jessica Rabbit: “Io non sono cattiva, sono gli altri che mi disegnano così”.

Però stare dalla parte dei cattivi e lasciare che la scienza e la mia collezione di scienziati venisse così bistrattata non mi andava molto, anche perchè:
1-SI PARLA non di quello che si fa (o che fanno i produttori che si ammirano) ma di quello che NON SI FA fanno e che si pensa che facciano quelli che non si conoscono – i CATTIVI:
2 -I cattivi si disegnano più cattivi di quello che sono per risultare più buoni et voilà ecco a voi il Complotto!!
3 -I cattivi sono cattivi e quindi su di loro, sul loro lavoro e la loro professione ci si può permettere di dare giudizi morali
4-Si confonde il lecito e il tecnicamente giustificato con l’illecito, l’illegale e il truffaldino
il risultato è la sfiducia del consumatore nei confronti del vino e se c’è una cosa sulla quale non si scherza questa è la sicurezza alimentare.

E così www.innovino.it dal progetto di divulgazione scientifica che voleva essere si è trovato a fare il debunker, il ghost buster delle bufale che circolano in rete sul vino e sull’agricoltura.

Ora sarà l’età ma non so più se mi piace fare l’antipatica, la cattiva o che.
Ho imparato che i complottisti in cerca di clic cercano la rissa e non mi presto (anche perchè il tempo è denaro e non so loro ma il tempo che impiego a dare visibilità e informazione corretta ai loro blog lo posso impiegare meglio per me).
E poi diciamocelo, il modo per raggiungere il pubblico quello vero (non la community ristretta di chi ne parla) in buona parte dobbiamo trovarlo ancora: la scienza potrebbe essere un veicolo, perchè sbatterla a priori sul banco degli imputati?
E soprattutto visto che siamo tutti parte dello stesso circo, Please Relax!!

Di questo ero andata a parlare a #VUU anche perché cercavo una risposta: che cosa devo fare di questo blog? La risposta è semplice lo so, ed è “scriverci più frequentemente che ogni tre o quattro mesi”. Ma risolto questo nodo che cosa ci faccio, parlo di scienza, racconto barzellette, rompo agli altri blogger e faccio debunking e fact checking, comincio ad assaggiare vini e sparo descrittori a non finire? Ma di domande e mani alzate non ce ne sono state (nemmeno pomodori e uova marce e questo già sul momento l’ho ritenuto un buon risultato), forse ho tentato il salto di specie ma non ci sono riuscita. Quella al link che segue è la mia relazione in Power Point che è stata sviluppata con tanti omini Lego perché in quel momento volevo fare la simpatica. Qualcuno alzi la mano per essere contaminato da questo povero virus please.

Si fa presto a dire assaggio parte 3: maghi e supereroi

Disegno di Tommy EppesteingerA questo argomento, che come è noto covo da diversi mesi, ho deciso di dare una veste diversa. Si tratta di un racconto. Scrivere racconti è una delle cose che negli ultimi mesi ho scoperto piacermi, e chi meglio dei maghi e dei supereroi della degustazione poteva diventare uno dei miei personaggi? Naturalmente qualsiasi riferimento a fatti realmente accaduti o a persone realmente esistenti è del tutto casuale. Tutto frutto della mia fantasia. Il titolo è quello di una canzoe di Gianna Nannini, quella che parla del sudore.

Brivido Animale

di Alessandra Biodi Bartolini

Scansione0004La sala illuminata era quella delle grandi occasioni. Dentro dieci file di tavoli apparecchiati con tovaglie candide tante serie di bicchieri, quelli a tulipano grande che si chiamano anche balloon, i palloni della degustazione.

In un’atmosfera tra il mondano e il sacro i partecipanti al corso per sommelier, agghindati per l’occasione, e gli ospiti francesi, guardati con reverenza, cominciarono a sedersi di fronte ai bicchieri vuoti e ad attendere che lo spettacolo avesse inizio.

Stasera andavano in scena i Pinot noir francesi di Domaine de Boisson un’eccellenza da degustare alla presenza del suo stesso artefice, Messieur De Boisson, seduto in prima fila. Ma soprattutto stasera andava in scena Lui, Luigi Mosconi, il Mago della degustazione, il più famoso, invidiato e discusso blogger enologico del paese, colui che con un’annusata poteva ribaltare le sorti di un’intera azienda viticola, portandola sugli altari o spingendola agli inferi.

Colui il cui naso, si diceva, era assicurato per cifre astronomiche.

Oggi però, come spesso del resto, Mosconi, invitato a presentare i suoi vini dal produttore francese, recitava un soggetto già scritto …o quasi.

Vanessa si era appassionata di vino negli apericena che almeno una volta alla settimana si concedeva con i colleghi dell’ufficio nello winebar più trendy di Milano. Poi era venuto il corso per sommelier e l’ebrezza di far parte dell’elite di coloro che “ci capiscono” non l’avrebbe abbandonata facilmente.

Non era così per Marco, il suo compagno, che gli apericena li evitava accuratamente e con gli amici andava più volentieri al pub a farsi una birra. Stasera però Marco non era riuscito a sottrarsi alle insistenze di lei e con la promessa di sedersi in ultima fila e di non doversi mettere la cravatta, l’aveva accompagnata.

Il silenzio calò nella sala quando Mosconi, magro e allampanato in dolcevita nero e naso (quel naso!) in aria entrò nella sala, mentre i camerieri ad un cenno del métre cominciavano a mescere i vini nei bicchieri.

Il prologo, la descrizione del terroir e del più nobile tra i vitigni, le Roi, il Pinot Noir, fu una profusione di emozioni, un esercizio di stile nel quale Mosconi non era secondo a nessuno. Dopo presentazioni come le sue anche un bicchiere di acqua sporca poteva diventare semplicemente sublime. E tutto senza che nessuno dei vini fosse stato ancora neppure sfiorato: il cerimoniale prevedeva che il primo a roteare il calice, affondarvi il naso (quel naso!) e lambirlo con le labbra sottili e anemiche fosse lui, il Divino Mosconi e che solo dopo la sua descrizione gli altri lo seguissero.

E così nel silenzio generale il Pinot Nero 2002 di Domaine de Boisson brillò giocando e ondeggiando nel bicchiere del degustatore che finalmente, e nell’emozione generale, vi affondò il naso (quel naso) per restare poi, nella più assoluta impassibilità, lievemente interdetto mentre un pensiero si faceva strada in lui: “cazzo, questo vino puzza!”.

Il temibile difetto, descrivibile con aggettivi poco edificanti come animale, stalla o sudore di cavallo, prodotto dalla contaminazione del lievito Brettanomyces, chiamato dagli americani con il diminutivo di Brett, come se l’assonanza con il divo di Hollywood più amato dal pubblico femminile potesse rendere meno odiosa la sua presenza, si era impossessato del Principe dei vini.

Ma, ahimè, tra quel vino e l’Achille cinematografico l’unica affinità era purtroppo soltanto il sudore.

Mosconi sondò in un istante due possibilità: la prima la più sincera era di dichiarare la defiance e chiedere la sostituzione della bottiglia ma fu spazzata via dallo sguardo compiacente di Messieur De Boisson che deliziato dal suo stesso vino (lui aveva la deroga all’assaggio) lo guardava annuendo: “vai avanti, carissimo, vai avanti” diceva in silenzio dondolando la testa.

La seconda possibilità consisteva nel procedere e puntare tutto sull’effetto “onda”, già sfruttato tante altre volte.

L’effetto “onda” era quel fenomeno per cui quando il soggetto che conduce la degustazione esprime il suo parere su un vino, descrivendolo in tutte le sue caratteristiche con quelli che, riconducendo ad aromi diversi, vengono appunto chiamati descrittori, i presenti (che si sarebbero probabilmente limitati ad un “buono” o al massimo si sarebbero sbilanciati in un “senti che profumo!”) cominciano a percepire e a riconoscere uno alla volta tutti i sentori citati e tale effetto di suggestione si estende come un onda a tutti.

L’effetto “onda” era poi tanto più efficace quanto maggiore era l’autorevolezza di colui che presentava il vino: nel caso di Luigi Mosconi non aveva mai fallito.

Incurante delle caratteristiche reali del vino Mosconi ripresosi cominciò quindi con espressione estasiata a snocciolare i caratteri più ricercati in un Pinot Noir di qualità superiore.

“Avvertite la nota dominante di cassis e di ciliegia acida” e l’onda cominciava a propagarsi “ Senti il cassis, senti?” “ma come ha detto la ciliegia acida?” “Ecco cos’era questo che sentivo, la clieigia acida!” e così via l’onda procedeva travalicando anche le barriere linguistiche e investendo anche gli enoappassionati francesi “Me oui, le cassis, naturalment”. E così arrivò l’onda della mora selvatica e quella della mineralità, una dopo l’altra dalla prima all’ultima fila il Pinot Noir di Domaine de Boisson sembrava avere salvato le sue sorti.

Anche Vanessa nell’ultima fila fu investita dall’onda “senti Marco, senti che cassis, e la mineralitè, sembra quasi di toccarlo quel terroir della Bourgogne” dichiarò emozionata spingendo il bicchiere sotto il naso del fidanzato che si chinò sul bicchiere per poi ritrarsene perplesso “Mah, ma sei sicura? Per me sa di merda!”.

Vanessa si fece rossa in viso e allontanato il bicchiere (e un po’ anche la sedia) da colui che aveva osato tanta blasfemia, si guardò intorno per accertarsi che nessuno avesse sentito. Ma era troppo tardi, il velo era stato squarciato e già l’onda era ripartita nel verso contrario e nella fila davanti già si bisbigliava “Come ha detto? di merda? In effetti un pochino” e poi “Senti come si sente, è proprio merda!”, “Me oui la merde”. Alla fine il disagio era generale e l’onda arrivò a Mosconi.

Ma il Re non era irrimediabilmente nudo, Mosconi aveva l’asso nella manica, il kit per rammendare lo squarcio e restituire a se stesso e al vino l’immeritata nobiltà: le madeleine di Proust.

“Chi non conosce la storia delle madeleine di Proust? Quel biscotto il cui aroma richiama nel grande autore francese un’epoca felice, quella dell’infanzia e in tal modo è in grado di sollevare un’anima infelice. Hanno questo potere tutti gli aromi percepiti nell’infanzia, quelli che ci riconducono all’età della spensieratezza.. E chi in quell’età non è entrato felice nella stalla della nonna dove si mungeva il latte, chi non si è avvicinato trepidante ed emozionato alla scuderia dell’agriturismo delle vacanze? Sentite, questo carattere che potremmo definire “animale” che qualcuno, poco avvezzo alla degustazione, un povero in spirito direi, potrebbe definire sgradevole, è l’essenza della ruralità. La ruralità più vera, della quale oggi Messieur De Boisson ci ha fatto graditissimo dono.”

Sbigottiti gli enoappassionati lo guardavano con ammirazione mentre riaffondavano il naso nei bicchieri e l’onda ripartiva dal rammendo ormai compiuto: “Che ricordi! “senti è vero, è il profumo della ruralità!”, “Me oui, la ruralité!”.

 

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Il vigneto da Vinci: vino, scienza e Scienza.

Il Vigneto Da Vinci - Giovanni Negri - Ed. Piemme.
Il Vigneto Da Vinci – Giovanni Negri – Ed. Piemme.

Se c’è una cosa che mi piacerebbe fare è scrivere un romanzo. Una storia dove mettere quello di cui mi piace parlare: il vino, l’agricoltura e la scienza. Nel modo in cui preferisco fare comunicazione e informazione, un modo leggero, magari anche divertente, per dare al lettore uno spunto di riflessione sì, ma soprattutto dei momenti piacevoli.

All’estero, in Francia e negli USA di storie, romanzi e film, sul mondo del vino ne hanno scritti tanti, più o meno riusciti, più o meno retorici. Qui in Italia ci prendiamo così sul serio che difficilmente siamo riusciti a fare qualcosa di buono.

Così un giorno di un mesetto fa incappo in un titolo di Winenews che confesso mi dà qualche preoccupazione “La scomparsa del professor Attilio Scienza a pochi giorni da Expo…” e mi impone di andare ad aprire il link, e così scopro che qualcuno, Giovanni Negri, un libro sul mondo del vino e della scienza lo ha già scritto

Sì proprio QUEL Giovanni Negri, non è un caso di omonimia, l’ex segretario del Partito Radicale ed Eurodeputato, che stanco (come dargli torto?) della politica si è dedicato a produrre Barolo e a scrivere romanzi. Chapeu, se mi muovo se non altro arriverò seconda (e non parlo di produrre Barolo).

E non solo, ma ci ha messo dentro proprio le cose delle quali mi piace di più parlare, compresa la genomica, gli OGM e i bio-talebani.

E ancora non solo ma lo ha fatto mettendoci dentro personaggi reali di un certo rilievo per il nostro mondo come Attilio Scienza, se questo non è prendersi un po’ meno sul serio di quanto facciamo sempre! Già me lo immagino l’Attilione nazionale che ride di gusto di fronte alla prospettiva di diventare il personaggio di un poliziesco.

E allora andava letto. Assolutamente.

E allora ecco la mia recensione (voto 8,5).

A circa 20 giorni dall’inaugurazione di Expo2015 Attilio Scienza scompare misteriosamente uscendo dal suo studio in Via Celoria. Nessuno sa se sia vivo o morto, se sia stato rapito (e a quale scopo) o peggio.

Oddio nessuno, pur immaginando che il professore non sia un tipo superstizioso, devo dire che io una qualche idea ce l’avevo.

La notizia ha una grande eco mediatica e internazionale, soprattutto per il fatto che al professore è stato affidato il discorso di apertura di Expo e le indagini vengono affidate al Commissario Cosulich, che a quanto pare ha già risolto casi analoghi in un altra storia di Negri.

Forse questa è la parte meno realistica, visto lo scarso ruolo che gli organizzatori di Expo stanno riservando al mondo della scienza. Ma del resto è una storia, chi scrive ha diritto di vedere il mondo come lo vorrebbe che è anche come lo vorrei io (Expo inaugurato da uno scienziato che fa Scienza di cognome!! Azz!).

Bianconiglio_fLe figure che ruotano intorno al mondo della viticoltura, dell’agricoltura e dell’Università ci sono tutte e tutte possono avere un ruolo nel rapimento di Scienza, l’operazione Bianconiglio come sarà nominata in seguito riferendosi ai baffi del professore.

Ci sono i ricercatori che cercano di guadagnarsi un ruolo per vie diverse da quelle istituzionali, o quelli il cui unico scopo è la carriera accademica e il prestigio di fronte alle istituzioni. C’è il guru dei movimenti ambientalisti e no OGM circondato da fanatici al suo servizio. C’è la produttrice che pende dalle scoperte dello scienziato per farsi un po’ di pubblicità.

E poi c’è Leonardo Da Vinci e la storia del vigneto regalatogli a Milano da Ludovico il Moro in cambio del Cenacolo, e la descrizione di tutto quel filone di ricerca estremamente attuale che dalla collaborazione dell’archeologia con la genetica sta portando alla luce in molte parti del mondo (e dell’Italia in modo particolare), le origini della viticoltura e degli attuali vitigni.

Una ricerca reale quella della vigna di Leonardo svolta da Scienza in collaborazione con la genetista Serena Imazio e Luca Maroni (è questo il motivo della sua presenza nel libro? Perchè se posso fare una critica sennò, ai fini della storia, LM che c’azzecca??).

Tutto descritto in modo corretto e senza prendere le parti di nessuno, dalle strumentalizzazioni del Biomov ai baffoni bianchi di Scienza. Da questo punto di vista molto meglio di Dan Brown.

Poi non so se a me sia piaciuto anche per il fatto di conoscere il protagonista principale o di far parte di questo mondo o per le mie aspirazioni di scrittrice scientifico-enoica.  Ditemi voi (dopo averlo letto, per sentito dire non vale).